Pier Mario Fasanotti
Il giorno della memoria/1

Fantasmi a Birkenau

Ginette Kolinka, parigina, deportata a Birkenau dai nazisti è tornata nei luoghi del lager dopo 55 anni. Ne è nato un libro struggente (con il copertina il numero "78699", quello che le tatuarono i nazisti sul braccio) che mescola gli orrori del passato e le paure di oggi

C’è un’altra Liliana Segre, oggi senatrice della Repubblica, scampata come lei alla Shoa. chiama Ginette Kolinka, parigina. Dopo una delazione, fu fatta salire su un vagone piombato a Marsiglia. Non sapeva dove la portassero. Un viaggio in mezzo a persone stipate come maiali. C’erano anche suo padre e suo nipote. Le tappe: Marsiglia, Drancy, Birkenau, Bergen-Belsen, e poi la Cecoslovacchia, nel campo nazista modello di Theresienstadt («c’erano le lenzuola!»), che i tedeschi avevano approntato per dimostrare agli ispettori della Croce rossa che loro gli ebrei li trattavano bene, come fossero in un albergo a tre stelle. Ginette per anni non ha voluto parlare. Poi ha iniziato a raccontare, grazie a Steven Spielberg (regista di Schindler’s List). Ora ha pubblicato un libro-testimonianza (scritto con Marion Ruggieri) che s’intitola Ritorno a Birkenau e in copertina mostra il numero 78699, quello che i nazisti le tatuarono sul polso. È pubblicato da Ponte Alle Grazie (89 pg., 12 euro).

Dopo 55 anni è tornata a Birkenau (Polonia). Con i giovani che volevano conoscere il vergognoso passato germanico. «Era primavera. I campi si coprivano di fiori, l’erba era verde, il cielo limpido… era bello». Vede una ragazza che fa joggin proprio lì, e pensa: «Ho avuto voglia di urlare, di gridarle “ma sei matta?”. O la matta sono io?». Consiglia, oggi, di non andare a Birkenau in primavera perché è pressoché impossibile pensare che quello era il terreno concimato dai morti. E spiega: «Birkenau, oggi, è uno scenario teatrale; uno che non conosce la storia può non vedere niente… dico agli studenti: “Mi raccomando, chiudete gli occhi, non guardate!”. E ripeto loro: “Sotto ciascuno dei vostri passi c’è un morto”».

Quando Ginette è tornata in Francia, dove ha rivisto le sorelle, ha fatto muro alle tante domande, troppe. Racconta: «Di notte, a casa, mentre tutti dormono, mi alzo per andare in cucina, cerco con gli occhi la spazzatura, un sacchetto che mia madre appende alto, spesso alla maniglia della credenza, per tenerlo lontano dai topi. Lo stacco e lo poso per terra, poi mi siedo e vaglio. Tutto ciò che è ancora commestibile lo mangio, trangugio tutto fino all’ultima buccia di patata. Di nascosto». Chissà quante persone uscite vive dall’inferno nazista si sono comportate così. Personalmente so che molti, per alcuni mesi, hanno dormito per terra, disabituati alla più banale normalità domestica. Ginette confessa: «Starò male per tre anni, e il cibo sarà la mia sola ossessione». Così come il più modesto dei decori. Non si è sorpresa, con gli studenti a Birkenau, quando una ragazza le ha chiesto:«Ma come facevate con le mestruazioni?».

Lione, 30 giugno 1945, Ginette è di nuovo nel suo Paese natale, la Francia: «Non ho più famiglia, non ho più forze. Non so cosa fare, dove andare. Mi propongono di andare in ospedale. D’accordo, sono seduta nel centro di accoglienza, su un muricciolo, guardo le persone che portano cibo, frutta, a volte denaro. Una signora mi avvicina…». La riconosce, le dice che le sue sorelle e sua madre sono a Parigi, «sono vive, abitano nell’appartamento che avevate lasciato». Aggiunge Ginette Kolinka: «Non so chi sia quella donna, non si è mai rivelata. Quante volte le mie sorelle mi hanno chiesto di descriverla, non ci riesco. Ma all’ospedale ancora mi aspettano».

Ginette oggi afferma di essersi salvata perché non sapeva, non pensava. Ogni tanto, di nascosto, guardava in giro alla ricerca del padre sessantunenne e del nipote. Non sapeva che erano stati spinti nelle “docce”, termine ipocrita che sta per camere a gas. Non conosce il tedesco, tutto è più difficile. Oltretutto i nazisti consideravano capricciose le donne francesi. La prima parola che apprende è “Schnell” ( veloce, veloce!). È tutto un abbaiare in tedesco, guai a chiedere spiegazioni, loro non te le danno, peggio per te. Hanno una sola reazione: ti picchiano fino allo stremo. Anche con badilate. Sporcizia immonda dappertutto, e un fetore che è difficile da descrivere. Eppure i soldati del Reich pretendono che i badili e tutti gli strumenti di lavoro siano depositati, la sera, in un capanno: devono essere lucidi. Come fare? Le donne li puliscono con quel poco che hanno addosso.

Ginette impara alcune cose per sopravvivere, osservando le compagne. Se ha una ferita aperta fa la pipì tra le mani: l’ammoniaca, contenuta nell’urina, serve come disinfettante. Fare la fila all’ospedale? Rischioso: o ti mandano via a suon di botte o ti uccidono. La prima umiliazione per le varie Ginette è il denudamento, la rasatura dei capelli e dei peli pubici. Necessaria per la doccia (fredda ovviamente) che però serve a poco. Si ritrovano con dei panni che i nazisti buttano loro contro. Niente mutande, solo un maglione leggero e una gonna. Si va alla ricerca di notizie. Alcune donne rispondono: «Tutti quelli che sono saliti sui camion sono finiti nelle camere a gas. Sono stati assassinati e i loro corpi bruciati… Non ci credo, ma so. Non penso più ad altro».

Quando entra in una grande baracca « c’è una tale puzza che le porte aperte non servono a niente… ci sono donne sedute a fianco a fianco, a perdita d’occhio, su tavole di legno, intente a fare i loro bisogni. Tutte insieme. Una schiera di natiche». Ginette ricorda le visite con i giovani a Birkenau, sa bene che l’immaginazione serve a poco. Mostra le baracche, «si passa davanti senza fermarsi, si vede soltanto una sala vuota, pulita. Per le guide ha scarsa importanza, credo. Loro non si rendono conto». Quando l’Armata rossa si è trovata dinanzi a quei campi, i soldati liberatori non hanno osato filmare gli interni. Per troppo orrore, per non offendere quegli scheletri che stavano in piedi a stento Alcune foto però ci sono e sono state scattate dai nazisti. Ora sono visibili allo Yad Vashem, in Israele, al tempio alla memoria. Ginette interrompe il racconto del suo internamento e scrive: «Fin lì, eravamo ancora esseri umani. Non siamo più niente».

Quante donne c’erano in una baracca (senza una stufa)? « Seicento? Settecento? Francamente, non ne ho la minima idea». Alle tre di notte c’è l’appello: «Siamo fuori, allineate come tanti fantasmi. Se un piede sporge, ti bastonano… le morte vengono trascinate. E il mangiare? Il caffè in un grande catino, idem la minestra fatta di bucce di patate. Si sorseggia: «Non abbiamo cucchiai, troppo lusso per le ebree».

All’inizio sono in quarantena, poi arriva il lavoro. Su una sorta di barella di legno concavo, detta “trag”, mettono pietre e sassi. «Bisogna caricare qui, scaricare là… decido di farmi più piccina possibile, di non ribellarmi mai, di accettare tutto». Guai a dire di non capire il tedesco: sono botte. E guai a non tenere sempre gli occhi bassi. Un altro tipo di lavoro consiste nello scavare fossati, creare strade, posare rotaie «che dal mese di maggio permetteranno ai treni di scaricare i deportati direttamente all’interno del campo». Ma quante siamo a Birkenau, si chiede Ginette. «Diecimila? Quindicimila? Bisogna ricontare più volte. Ore e ore sull’attenti, gelate, tremanti, esauste».

Gli studenti in visita a quel campo, racconta Ginette, «mi fanno un sacco di domande pertinenti, ma mai su quell’argomento della fame. E il crampo invece è la fame. Penso addirittura che fosse la mia sola ossessione. I giovani non domandano mai “che cosa mangiava, signora?”. Frequente la domanda: «Lei ha visto Hitler?». Racconta che le internate più magre, con ossa sporgenti, che si reggevano in piedi a malapena o venivano aiutate dalle compagne a non cadere a terra, erano chiamate “le musulmane”. Non si è mai capito perché. Ossessione (che va al di là della patologia) dei tedeschi per le razze non ariane? È possibile. Dire ebree non bastava più, evidentemente.

Gennaio 1945 i nazisti lasciano Auschwitz: gli alleati si avvicinano. C’è da fare “la marcia della morte” fino a Loslau, «ovvero 56 chilometri in un freddo gelido che provocherà il decesso di migliaia di deportati…alcuni dei quali raggiunti da una pallottola al bordo della strada, perché sfiniti». Alcuni sopravvissuti hanno raccontato che c’erano anche venti-trenta gradi sottozero. Dopo Bergen-Belsen è la volta di Raguhn (vicino a Lipsia), dove c’è un’officina dell’aviazione. I tedeschi hanno bisogno di manodopera. Ginette ci va in treno: «Arriviamo in paradiso». Qui danno loro le famose vesti a strisce, con aghi e forbici per adattarle alla taglia. «Mi sento elegante». Infine una pagnotta per persona, che deve durare quattro giorni.

I nazisti diventano – se possibile – più nervosi: sanno che l’Armata rossa è a poche miglia. Quindi di nuovo in treno, in mezzo ai pidocchi. Dopo sette giorni il treno fa un’altra tappa. Si ferma, c’è un allarme. Riparte e raggiunge Theresienstadt. È il “campo modello”, appena liberato dai russi. Tre settimane dopo il rientro forzato in Francia. L’ultima frase del libro di Ginette Kolinka (padre francese, madre rumena) è la seguente: «Spero che non pensiate che io abbia calcato la mano…».

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