Raoul Precht
Periscopio (globale)

Il mondo secondo Hillman

Adelphi ripubblica in una nuova edizione “Re-visione della psicologia”, il saggio nel quale James Hillman pose le basi della sua dottrina che pone l'individuo in secondo piano rispetto alla comunità (e al mondo)

Scritto nel 1974 e pubblicato per la prima volta da Adelphi nel 1983, Re-Visioning Psychology (Re-visione della psicologia) è un saggio fondamentale di James Hillman, che viene riproposto ora dal medesimo editore in una nuova edizione. Al di là dell’interesse dell’opera in quanto tale, trattandosi di uno dei testi fondativi della sua “psicologia archetipica”, il volume rappresenta anche un’occasione per riaffrontare i postulati fondamentali dell’opera di Hillman a quasi dieci anni dalla morte.

Com’è noto, gran parte del ragionamento di Hillman prende le mosse da un’osservazione di Keats, che in una lettera al fratello si riferisce al mondo come “vale of soul making” (valle del fare anima). Siamo al mondo, immersi nel caos del mondo, e partecipiamo alla creazione di un’anima collettiva. La terapia deve allora sganciarsi da qualunque pretesa di salvezza individuale – che Hillman attribuisce all’idea cristiana dell’identificazione della psiche con la personalità dell’Io, la cui importanza va sminuita – e diventare cura non solo del singolo individuo, ma, appunto, del mondo. Per far questo Hillman indica la necessità di rifarsi al Rinascimento, che a sua volta era tornato alla tradizione classica, pagana e politeistica, e di ripartire magari dai neoplatonici (Plotino, Marsilio Ficino, Vico), passando per Hegel e approdando a una reinterpretazione critica tanto di Freud, quanto di Jung. Se la psicologia è in crisi, ciò accade a suo parere perché si è disinteressata troppo a lungo del mito e dell’immaginazione e perché il pragmatismo delle cure mediche – conseguenza di un approccio eminentemente pratico, nordico e protestante – ha ucciso la fantasia. Bisogna passare dall’univocità alla plurivocità, dal monoteismo al politeismo, dalla semplificazione catalogante all’accettazione della complessità, dalla specializzazione (anche sul lavoro) all’ideale dell’uomo rinascimentale, che era versato in molte discipline. “Una rinascenza della psicologia – scrive Hillman – può aversi solo se si dà modo alla psiche di ritrovarsi sul più ampio degli sfondi possibili. La complessità psichica richiede tutti gli Dei; la nostra totalità può essere contenuta in modo soddisfacente soltanto da un Pantheon”. Con il vantaggio ulteriore che nella mitologia greca il raggio d’azione di Zeus, non sovrano ma unicamente primum inter pares, non è assoluto, ma limitato da quello degli altri dei.

Già discepolo a Zurigo di Jung, con il quale i rapporti si freddarono per una controversia sul tema della libido, interrompendo così anche un prezioso e fecondo carteggio, fondatore in seguito della psicologia archetipica – anch’essa di discendenza junghiana, ma resasi ben presto autonoma nei suoi obiettivi e nel modo di procedere, più ancora che nei postulati teorici –, Hillman definisce il suo concetto di anima come qualcosa che: a) si riferisce all’approfondirsi degli eventi in esperienze; b) ha uno speciale rapporto con la morte; c) fa esperienza attraverso la speculazione riflessiva, il sogno, la fantasia, e soprattutto l’immagine, alla quale Hillman vota un vero e proprio culto, talché ogni realtà è vista come primariamente simbolica o metaforica. Il tutto è ispirato al tema del ritorno o epistrophé, l’idea secondo cui tutte le cose bramano di ritornare agli originali di cui sono copie. Tale originale, l’archetipo, che ricongiunge fatti e significati, è al centro della teorizzazione hillmanniana, e vi ritornerà anche in numerosi testi successivi, fra i quali va menzionato per la sua completezza almeno Il codice dell’anima (1996). Se Jung aveva affermato che non è l’anima a essere in noi ma piuttosto il contrario (esse in anima), e che la terapia dell’anima individuale deve essere anche terapia della cosiddetta anima mundi, Hillman radicalizza tale postulato fino a scegliere, negli ultimi anni, di abbandonare la pratica analitica – cosa che gli verrà rimproverata come una lacuna – per dedicarsi completamente alla formalizzazione delle sue teorie. Per Hillman, come già per Jung, gli archetipi, una sorta di universali del funzionamento della psiche, compaiono dappertutto, in ogni aspetto della vita umana, tanto conscio quanto inconscio. L’anima produce delle immagini che saranno poi al centro dell’analisi clinica, intesa come sviluppo dell’immaginazione.

Come spiega qui con dovizia di particolari, nel senso hillmanniano la psicologia archetipica presenta una serie di gusci: dentro l’afflizione c’è un complesso, con dentro un archetipo che rimanda a un Dio; il Dio usa poi i sintomi per farsi riconoscere dall’uomo. In una conversazione con Silvia Ronchey (L’anima del mondo, 1999), riprendendo peraltro un tema già enunciato da Jung, Hillman dichiara: “Gli dei ritornano nei nostri sintomi, ed è per questo che la psicologia è il luogo dove andiamo a incontrare gli dei”. Per fare un solo esempio: la bellicosità umana non si rispecchia forse, come noterà più dettagliatamente in Un terribile amore per la guerra (2004), in quella degli dei, che sono sempre in conflitto tra loro? Del resto, il politeismo greco non contraddice alcuna esperienza umana, ma le sussume tutte, e l’elemento patologico è necessario al mito. “L’archetipo – scrive in Re-visione della psicologia – è una premessa psichica con molte teste: una la vediamo nelle nostre immagini oniriche, un’altra nelle emozioni e nei sintomi, un’altra plasma il nostro comportamento e le nostre preferenze, un’altra ancora appare nella nostra modalità di pensiero. (…) Il medesimo archetipo domina le nostre scelte individuali, le nostre confusioni e le nostre idee”. Le immagini espresse dagli archetipi ritornano nei miti grazie ai quali l’anima si racconta, mediando al tempo stesso fra mondo archetipico e mondo fattuale.

Molte sono le intuizioni su cui, anche a prescindere dall’adesione alla cornice teorica generale, difficilmente si può essere in disaccordo. Hillman analizza con molto acume il continuo processo di “personizzazione” che finisce per costruire la nostra personalità: l’anima “inventa” persone e scene e ce le presenta sotto la sembianza di un ricordo. Ciascuno di noi, aggiunge Hillman, non è un’entità data, ma un flusso di figure, e dunque ci sarebbe da interrogarsi a lungo sulla pretesa anormalità di personalità multiple; la scelta di un riferimento politeistico favorisce la coesistenza di tutti i frammenti psichici e offre loro dei modelli nella mitologia greca che ci consentono di capire meglio le varie fasi della nostra esistenza. Ma l’anima, nella lezione hillmanniana, è anche la personificazione della nostra incoscienza, di tutto ciò che di stupido, folle e problematico compiamo, ovvero, in altre parole, l’immagine precisa delle emozioni momentanee. Nella maggior parte dei casi, del resto, le intuizioni della psicologia del profondo derivano da una condizione malata, sofferente, anormale e fantastica della psiche: “La vecchiaia,” scrive qui ad esempio Hillman, “porta con sé la solitudine dell’anima, momenti di acuto dolore psichico e ricordi ossessivi che accompagnano il disintegrarsi della memoria”. (Ma su questo tema si veda anche e soprattutto La forza del carattere, del 1999.) Peraltro, gli eventi patologizzati non apparirebbero così sbagliati se non venissero analizzati alla luce del materialismo della medicina o dello spiritualismo della religione, che molte responsabilità hanno nel decretare cosa sia o non sia normale. Detto questo, va anche aggiunto che molte malattie non sono solo tali, ma rappresentano anche, e forse in primo luogo, delle focalizzazioni della fantasia; ecco che quando compare un sintomo, la fantasia lo traduce subito nell’ipotesi più grave, in quelle afflizioni ipocondriache che in definitiva hanno anche una funzione positiva, in quanto proteggono l’io dai suoi deliri di grandezza. “Abbiamo un debito immenso verso i nostri sintomi,” avverte Hillman. “L’anima può esistere senza i suoi terapeuti, ma non senza le sue afflizioni.” Le quali afflizioni, o patologie, come precisò nella conversazione con Laura Pozzo ripresa ne Il linguaggio della vita (1983), sono d’altro canto una forma di amore, tanto che non ci lasciano mai.

Hillman è anche un elegante e accattivante scrittore (in questo più simile forse a Freud che a Jung), tanto che a volte la valenza letteraria sembra prevalere su quella strettamente psicoterapeutica. Non mancano mai, nei suoi libri, riferimenti di notevole spessore: un esempio, proprio nel testo di cui parliamo qui, può essere dato dall’interpretazione della famosa discesa di Petrarca dal Mont Ventoux. Petrarca, scrive Hillman, considera lo studio degli scrittori antichi come “cura dell’anima”, e quindi come un esercizio di psicoterapia. La sua famosa conclusione al ritorno dal Mont Ventoux, “nichil preter animum esse mirabile” (sentenza tratta in realtà da una delle epistole a Lucilio di Seneca), gli rivelerebbe l’indipendente realtà dell’anima, con cui l’arte è chiamata a dialogare. In pratica, Petrarca non ritorna quindi verso l’uomo, come si ritiene abitualmente, ma scende con piena consapevolezza in quella stessa valle dell’anima che secoli dopo sarà indicata con poetica sensibilità da Keats. Altri snodi importanti del libro sono dedicati a Plotino e Marsilio Ficino, considerati come precursori. In quest’ultimo lo psicologo statunitense vedrà un concetto di rinascimento come potenzialità dell’anima, non della natura, anzi in un certo senso un atto contro natura perché elude, una volta tanto, l’ossessionante pensiero della morte. Ulteriori riferimenti, sempre documentati e spesso felici, riguardano altri filosofi e pensatori come Hegel, Dilthey o Jaspers. È vero pure, tuttavia, che nella ricerca dei precursori ci si espone sempre al rischio di qualche forzatura, e poco finiscono per convincere nel libro, ad esempio, le vibranti accuse nei confronti del positivismo, mosse da una prospettiva post-romantica e talora ingenerose.

Ancora oggi, nessuno dei suoi detrattori nega a Hillman originalità e raffinatezza intellettuale, ma la sua insofferenza nei confronti di qualunque regola e “coerenza” mette in guardia gran parte dei terapeuti dall’adottarne sic et simpliciter le conclusioni, in quanto sembrerebbero spingere la pratica psicoanalitica in un vicolo cieco, almeno sotto il profilo della terapia individuale. Difficile stabilire insomma se Hillman sia stato davvero solo un carismatico quanto innocuo esteta, un raffazzonatore di mitologie che dalle stesse trae le figure che di volta in volta fanno comodo al suo discorso critico – insomma un abile bricoleur post-moderno, come lo definisce Augusto Romano -, o invece un geniale, eretico pensatore, le cui teorie e costruzioni, pur basate sostanzialmente su una raffinata reinterpretazione di Marsilio Ficino e del neoplatonismo attraverso Jung, e sia pure con scarti e incoerenze da puer aeternus, risultano oggi non solo innovative, ma in grado di indicarci un sentiero, se non proprio una strada, per il futuro.

Nel dubbio, lasciamogli per ora l’ultima parola, come sempre brillante e difficilmente confutabile. Il risveglio della psiche, avverte, passa per una riconsiderazione delle basi poetiche anche della vita di tutti i giorni. “L’anima della nostra civiltà dipende dalla civiltà della nostra anima. L’immaginazione della nostra cultura richiede una cultura dell’immaginazione“.

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