Lidia Lombardi
Modernisti a tutti i costi

Arles o l’archistar?

Davvero la "torre delle arti" di Frank Gehry è diventata il "nuovo simbolo di Arles" come applaude certa stampa? Davvero non bastavano un meraviglioso anfiteatro e un mirabile teatro romano a fare della cittadina provenzale un luogo inimitabile?

Il Corriere della Sera ha celebrato con l’intera prima pagina in sezione Cultura dell’8 gennaio scorso la nuova fatica dell’architetto Frank Gehry, il novantunenne ideatore, tra l’altro, del museo Guggenheim di Bilbao: è la cosiddetta Torre di Arles, cinquantasei metri di acciaio sfaccettato che si innalzano sulla città provenzale dove Van Gogh dipinse in due versioni – una alla Gnam di Roma – la carismatica Arlesiana. Scrive l’autore dell’osannante articolo, Aldo Colonnetti: «Siamo meravigliati della sua capacità (di Gehry, ndr) di sperimentare percorsi espositivi inediti, nei quali emerge un’attenzione, insolita, nei riguardi sia del linguaggio pittorico di un artista come van Gogh, sia del paesaggio intorno, in particolare la piccola catena montuosa di tipo calcareo, les Alpilles, che Gehry riporta, metaforicamente, nella sua opera».

Ebbene il colosso ancora in costruzione – dieci piani, 10.752 blocchi di acciaio inossidabile – attirò “l’attenzione insolita” di chi scrive poco più di due anni fa, nel corso di un soggiorno in Provenza durante il quale non potette mancare una visita ad Arles. Mi trovavo all’interno di uno dei suoi più celebrati monumenti, l’Anfiteatro Romano, potente nelle arcate degli ambulacri eppure lieve nell’uso di candido marmo, costruito attorno all’80 dopo Cristo e contiguo alle altre vestigia antiche della città francese, come il Teatro inaugurato nel 12 avanti Cristo, regnante Augusto, il Circo voluto da Antonino Pio, il Foro, un insieme comprendente le Terme di Costantino e la Cattedrale Romanica di Saint Trophime tutelato dal 1981 come Patrimonio Unesco dell’Umanità.

Dunque, ero salita sugli spalti più alti dell’Anfiteatro, dai quali si domina la vista di Arles, compresa l’affascinante cinta muraria gallico-medievale, le anse del Rodano e appunto les Alpilles. Ma lo sguardo rapito s’inceppò su un manufatto che – inconsapevole com’ero del progetto di Gehry per il Parc des Ateliers finanziato dagli eredi della famiglia svizzera dei Roche nella dismessa cittadella industriale attigua alla ferrovia – spuntava come un offensivo scorcio del monumento romano. Un iceberg incomprensibile di metallo, un’accozzaglia di gigantesche scatole di pomodori pelati, mi sembrò. E mi chiesi come mai i cugini d’oltralpe – disinvolti nel campo dell’urbanistica ma comunque con criterio, altro che certi nostri sovrintendenti capaci di autorizzare, per esempio, l’installazione pur temporanea di un ciclopico corno rosso anti iella nel piazzale antistante la Reggia di Caserta – avessero potuto dare il via libera a tale mastodonte ferrigno, ancorché luccicante nelle sue sfaccettature alla luce del sole, in un contesto urbano vivace ma unitario nella sequenza di opere risalenti dall’impero romano al medioevo e fino all’Ottocento colorato di natura e di dolente introspezione quale fu quello di van Gogh, che ad Arles dimorò nel 1888-89.

È pur vero che uno iato, all’interno dell’anfiteatro, mi aveva colpito per l’installazione, attorno a tutti gli ordini di gradinate, di impalcature metalliche funzionali all’uso estivo che ancora si fa del monumento: nell’arena si svolgono regolarmente anche gare tra tori – i famosi cornuti della Camargue – che attirano folle di spettatori da far sistemare in sicurezza sui sedili in pietra. Ed è pur vero che i francesi sono famosi per la loro disinibita concezione dell’architettura: per secoli, a Parigi, si sono buttate giù pregiate costruzioni avite per ricavare sconfinate piazze e innovative costruzioni. E penso al Beaubourg di Renzo Piano, che non scherza in quanto a uso del metallo e del vetro, o alla Piramide di Pei che funge da ingresso al museo del Louvre. E però nella Città Lumière siffatti azzardi possono coesistere con architetture d’antan proprio grazie alle dilatate dimensioni dell’abitato. Insomma, la cuspide di Pei non soffoca la spianata napoleonica di accesso al Louvre, per dirne una. Ma quando in un centro di piccole dimensioni come Arles – città di poco più di cinquantamila anime – si attenta all’armonia dell’insieme con un “mostro” tanto invadente quanto a me pare la Torre di Gehry, allora si fa strada l’idea di un peccato inspiegabile di presunzione urbanistica. La Torre dell’Arts Resource Centre è stata voluta come “nuovo potente simbolo di Arles”, scrive il Corrierone. Quasi che l’Anfiteatro – questo sì impositivo inossidabile “logo” – avesse ormai stufato gli amministratori cittadini. Stregati dall’archistar del presente.

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