Flavio Fusi
Cronache infedeli

Contrappunto latino

Mario Vargas Llosa dice che il Sudamerica è un'invenzione degli europei, Eduardo Galeano aggiunge che però gli europei "non potevano" vederla. Spunti da un Continente unitario eppure diviso

Scrive Mario Vargas Llosa in Sogno e realtà dell’America Latina (pubblicato da liberilibri): «Cristoforo Colombo si sforzò di vedere non quello che era davanti ai suoi occhi e sotto ai suoi piedi, ma l’India, la Cina, l’Asia della seta e delle spezie che portava con sé nel suo desiderio e nella sua immaginazione». Scrive Eduardo Galeano ne L’America non ancora scoperta (Edizioni associate): «L’America fu invasa e non scoperta, perché molto prima l’avevano scoperta gli indios che la abitavano. Ma si potrebbe anche dire che non fu scoperta, perché coloro che la invasero non sapevano, o non potevano vederla».  Chiaro, no? Due riflessioni gemelle, un identico concetto, sin nelle parole scelte.

Nulla è così diverso – direi opposto – nel territorio della letteratura e della vita come l’esperienza dei due scrittori latino-americani: da una parte, il nobile hidalgo peruviano-bianco, il dandy delle lettere, il venerato premio Nobel, amante del lusso e delle belle donne, Vargas Llosa, dall’altra lo scapigliato combattente di tutte le cause popolari, il pericoloso comunista esiliato dall’Uruguay dei colonnelli, giornalista indomito e polemista sprezzante, Galeano.  Si conoscevano? Certo che si conoscevano, ma è altrettanto certo che non si frequentavano e – senza bisogno di  dirlo – si detestavano.

Eppure, sorpresa: tra loro c’è un comune sentire, e non su un particolare secondario, ma su un concetto fondativo della storia e dell’identità dell’intero continente: lo Ius soli – si potrebbe dire – latinoamericano. Dunque, dice Vargas Llosa, l’America Latina non solo è stata colonizzata dal punto di vista territoriale ed economico, ma è stata depredata della sua stessa identità. Dunque, gli fa eco Galeano, «se le basi materiali di un Paese appartengono a estranei, quale cultura nazionale può fiorire e respirare a fondo, condivisa da tutti?». E poiché lo scrittore uruguayano non si dimentica mai di essere soprattutto un giornalista, ecco un esempio da giornalista sul campo: «Se in Venezuela il piatto nazionale – un tipo di fagiolo nero – viene importato dagli Stati Uniti in sacchi che portano impressa la parola beans, perché sorprendersi se i bambini venezuelani ignorano la storia del proprio Paese?».

Se impressionanti sono le assonanze, altrettanto significative possono essere le differenze, che appartengono alla genesi stessa e alla datazione dei due testi che prendiamo in considerazione. Il breve saggio di Vargas Llosa è del 2008 (clicca qui per leggere la recensione) e appartiene alla fase tarda dello scrittore, ma prima della consacrazione nel cielo stellato dei Premi Nobel. Ancora più vecchio, quasi remoto, è lo scritto di Eduardo Galeano: un volume di brevi interventi pubblicato nel 1987 sotto il titolo Contrasena (in italiano, appunto, “L’America non ancora scoperta”). Il tempo ha depositato molta polvere sui due testi e sugli autori: Vargas Llosa è ormai un vecchio totem della vita letteraria internazionale, Eduardo Galeano è morto cinque anni fa, privandoci di una voce vigile e severa sui fatti e i misfatti del mondo.

Dunque, per tornare alle assonanze, l’Occidente non solo è miope perché non sa vedere la realtà latinoamericana, ma è anche strabico perché in un continuo gioco di specchi proietta nel continente alieno le sue proprie idiosincrasie e fascinazioni. Scrive Vargas Llosa: «L’Europa proietterà spesso sull’America le utopie, le frustrazioni artistiche e ideologiche (anche religiose) nate nel suo seno…». Sotto accusa, ancora una volta, è Macondo, il realismo magico, il mito della selva e il barocchismo selvaggio. Ma sentite cosa risponde Galeano: «Ci viene detto che la letteratura latinoamericana è barocca perché parla il linguaggio della selva, come se il linguaggio della selva fosse l’unico possibile in una regione del mondo di grandi città, vasti deserti, steppe, cordigliere e pampas, e come se davvero esistesse un linguaggio della selva». Galeano, scrittore eminentemente metropolitano, se la prende con quella che chiama la paroleria, la fabbrica delle parole: «Quanto più povero è un paese, tanto più ostentata e maccheronica dovrà essere la sua letteratura, come se a minori quantità di calorie nella dieta del popolo corrispondesse una maggiora quantità di parole nell’opera degli intellettuali che lavorano volgendo le spalle alla realtà».

Rovesciamo infine in concetto: se l’Europa (per usare un termine marxiano) incarna una falsa coscienza rispetto al Continente alieno, nel gioco degli specchi anche il continente alieno ha di sé una falsa coscienza. Il caso eclatante, ma non il solo, è quello dell’Argentina bianca che in molte e ricorrenti fasi della sua storia si è vista come un pezzo d’Europa in esilio nel continente australe, altro dalle penurie, dal tumulto, dall’alveare proletario del sud del mondo.

Una provvidenziale falsa coscienza che spesso si riverbera nell’opera e negli atteggiamenti di molti e grandi scrittori del continente. Tra tutti, certamente Vargas Llosa, che con un felice calembour viene definito «il più europeo tra gli scrittori latinoamericani, e il più latinoamericano degli scrittori europei».  Lo stesso Borges considerava se stesso un europeo in esilio, e tuttavia ci ha lasciato straordinarie rime su Buenos Aires  («Ti sentivo nei cortili del sud, nella crescente ombra che va sfumando lentamente il suo disegno, mentre muore il giorno. Ora sei in me, sei la mia vaga sorte, sei le cose che estinguerà la morte») e un trattatello sul tango argentino, audace e appassionato come potrebbe scriverlo un geniale compadrito del quartiere Palermo.

Il gioco di specchi diventa coscienza e rivendicazione del meticciato nella carta di identità di Eduardo Galeano: «Antenati in Gran Bretagna, Italia, Spagna e Germania, faccia da console svedese in Honduras. Eppure da sempre ho saputo che sono tanto latinoamericano come le pietre di Machu Picchu o il più umile sasso del mio Paese. Appartengo a una terra che ancora non conosce se stessa. Scrivo per aiutarla a rivelarsi – rivelarsi, ribellarsi – e cercandola mi cerco, e trovandola mi trovo…». La grande letteratura trova sempre una strada che la guida fuori dal vicolo cieco della falsa coscienza, della colonizzazione materiale e ideologica, della solitudine dei popoli. Ancora Galeano: «Si scrive contro la propria solitudine e contro la solitudine degli altri».

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