Pier Mario Fasanotti
A proposito di “Alda Merini, mia madre”

Vita agitata di Alda

Emanuela Carniti racconta la straordinaria avventura umana (e poetica) di una madre speciale e ingombrante: Alda Merini. Ne viene fuori il ritratto di un'artista irregolare che non ha mai smesso di amare disperatamente la vita

A dieci anni dalla scomparsa si parla ancora di lei, soprattutto in quest’ultimo periodo. Lo dico con stupore perché è cosa rara nell’editoria italiana, nei cui scaffali anche i migliori libri pare diano un po’ di fastidio. Che facciano polvere, come si suol dire. Questa testarda permanenza di un’autrice come Alda Merini è ancora più singolare perché fa parte della schiera dei poeti, razza letteraria (di per sé già strana) che ha sempre destato diffidenza, o comunque rari apprezzamenti. La figura della Merini – questo lo sanno anche i meno acculturati – ha destato sempre curiosità per la contorta vicenda della sua vita, la sua stravaganza e per il suo coraggio di vivere. È stata a lungo in manicomio (dal ’65 al 78, con un calvario psichiatrico che solo la legge Basaglia ha tagliato di netto) e inevitabilmente il suo caso riaccende gli interrogativi, mai risolti, che stanno attorno al binomio arte-pazzia. Ma che tipo era, nel suo bizzarro privato, quella donna che già da adolescente attirava l’ammirata attenzione di persone di cultura come Maria Corti, Giovanni Raboni, Pier Paolo Pasolini e Giacinto Spagnoletti? Ce la descrive sua figlia Emanuela Carniti nel libro edito da Manni (Alda Merini, mia madre, 169 pg., 16 euro). Un testo nel quale s’avverte l’intenso profumo dell’affetto unito a quello della schietta verità.

Nella raccolta Vuoto d’amore (Einaudi 1991) è proprio la Corti, al quale va il merito di aver creato a Pavia una eccezionale documentazione letteraria, a riassumere il baricentro intimo di una esistenza difficile: «…la premonizione, la convinzione di una predisposizione alla diversità già dalla nascita». Suo padre Nemo era un conte della Brianza, diseredato per aver sposato una contadina. Aveva solo cinque anni quando le regalò un vocabolario italiano, pur diffidente dinanzi alla prospettiva che «la tuseta mata» diventasse poetessa, realisticamente convinto che «carmina non dant panem». Alda, alla morte del padre nel 1955, lo ha onorato con queste parole: «Padre, senza macchia, senza paura, padre non ascoltato, scrittore meraviglioso di canti… padre in sospetto d’amore, folle giureconsulto, mia solitaria stanchezza, nemesi della mia vita, banchiere senza parole, gabelliere dai mille liuti… padre della mia disperazione, che hai fatto di me una corifea pura… se ora potessi vedermi chiusa nel lenzuolo ibrido del manicomio, tu padre moriresti…». E la figlia Emanuela scrive che Alda, la matta dei Navigli milanesi, «fa quasi un mito del ricordo di mio nonno, fino ad attribuirgli connotati improbabili, e soprattutto nei momenti di disperazione lo idealizza fortemente». Una coerenza, tutto sommato, visto che la Merini ha avuto, salvo rare eccezioni come Milva che cantò i suoi versi, una certa diffidenza verso le donne.

Nata il 21 marzo 1931, respinta all’ammissione al liceo (si prenderà molto dopo la soddisfazione di ricevere la laurea honoris causa), Alda aveva sempre avuto come riferimento non tanto i libri per l’infanzia quanto le terzine di Dante, che imparava a memoria, e i testi di storia dell’arte. Disse di sé: «Sono sempre stata isolata, chiusa in me stessa, pochissimo compresa anche dai miei e, forse per questo, il mio amore per loro non aveva confini, era assoluto. A scuola, parlo dei corsi elementari, sono sempre stata prima e senza fatica perché lo studio fu sempre una mia parte vitale». Erano gli anni del fascismo, che le davano fastidio al pari dell’idea comunista. A causa della guerra, la famiglia Merini si trasferisce nel ‘43 nel Vercellese («le bombe non scoppiano nelle risaie») e quando torna a Milano vede la casa bombardata. Allora Alda approda in Porta Ticinese, ai Navigli, in un solo locale, «dove eravamo in cinque e si dormiva per terra… certo non si rubava però, ed anzi c’è stata una grande fratellanza tra tutti i milanesi, perché uno aiutava l’altro…».

In quegli anni sorgono i primi malesseri psicologici. Impiegata in uno studio notarile, nel ’47 comincia a frequentare circoli letterari, conosce Spagnoletti, David Maria Turoldo, Giorgio Manganelli, Mario Luzi, Luciano Erba. Ne avrà sempre nostalgia. Nel ’49 Luzi scrisse di lei in una lettera a Spagnoletti: «E la Merini Alda? Misterioso tipo, quello… non saprei per ora dire di più. La sua forza sta lì, mi pare…». Un giorno Alda dice di aver letto Shakespeare. Ricorda la figlia «che lo pronunciò Scapeschere o qualcosa del genere e così cominciarono ad apostrofarla affettuosamente con quel nomignolo». E ancora: «Nella casa di Spagnoletti, nel ’48 o giù di lì, la mamma fece un incontro molto importante, non solo sul piano letterario: quello con Giorgio Manganelli. Classe 1922, intellettuale già affermato». Ma era sposato da qualche anno e aveva una figlia. Alda confesserà d’essersi innamorata «perdutamente» di lui, «quel grosso chierico, un grosso ambulante del pensiero, amorevolissimo e casto come tutti i veri intellettuali. Malgrado fosse già sposato, sembrava un ragazzo alle prime armi; aveva paura di toccarmi e non sapeva come dirmi che mi voleva bene». Alla figlia diceva: «Sembra una grossa foca».

Amoreggiavano in un pied-à-terre, e Maria Corti li vedeva pensando: «Solo Dio poteva sapere che cosa sarebbe stato di loro… Manganelli più di ogni altro l’aiutava a raggiungere coscienza di sé, a giocarsi bene il destino della scrittura al di là delle ombre di Turro». Nel quartiere di Turro, racconta Emanuela Carniti, «si trovava l’ospedale psichiatrico in cui fu ricoverata per la prima volta mia madre».

Ci rimase per circa un mese. Fu Manganelli a farle incontrare psicoanalisti di fama come Franco Fornari, Cesare Musatti e Cesare Clivio. La figlia ricorda che uno di questi le consigliò di trascrivere i sogni che faceva. In ogni caso emergeva la vitalità e l’esuberanza di Alda, l’urgenza di vivere la propria vita. E, aggiunge, «il bisogno di coltivare rapporti positivi, senza i quali non c’è creatività, non c’è poesia».

Nel 1950 sul Paragone, rivista diretta da Roberto Longhi, comparvero i primi componimenti di Alda, Lettere ed Estasi di San Luigi Gonzaga, poi pubblicati nella raccolta La presenza di Orfeo (’53). Emanuela Carniti osserva che con il secondo testo «proponeva temi che sarebbero divenuti costanti nella poesia di mia madre: la religiosità e l’erotismo». Nello stesso anno Spagnoletti inserisce cinque componimenti nell’antologia Poesia italiana contemporanea. 1909-1949.  Ecco due versi di Alda. «Dio dell’innocenza/ io Ti chiedo al mio amplesso». Commento della Corti: «…nella Merini la simbiosi dell’erotico e del mistico, l’antitesi di tenebra e luce… si ammira la sobrietà lirica, una concentrazione stilistica davvero esemplari». Alcuni suoi versi vanno a finire anche nella raccolta curata da Eugenio Montale e Maria Luisa Spaziani (Poetesse del Novecento), che curavano la produzione di un’altra personalità destinata a essere sempre vicina alla Merini, ossia Giovanni Scheiwiller, la cui eredità editoriale passò poi al figlio Vanni.

E Manganelli? La “foca” a un tratto decise: salì sulla sua Lambretta alla volta di Roma, lasciando a Milano tre donne: la moglie, la figlia e Alda. Maria Corti sostenne che voleva “salvare” Alda, «ma la paurosa immensità degli abissi della follia cominciava a dare i suoi segni esteriori». La “tuseta mata” intanto, nel 1953, uscì col suo primo volume di versi, La presenza di Orfeo (Schwarz editore), poi riedito nel ’93 da Scheiwiller nel ’93. Critica molto favorevole. Pasolini parla di una Merini «destata dall’inquietudine nervosa, dei sensi felici…» e parla di «oscurità e attesa». Elogi anche da Salvatore Quasimodo. In diretta polemica con Pasolini entra a gamba tesa Giancarlo Vigorelli, accusando lo scrittore-poeta-regista bolognese d’aver dato retta a una “linea orfica” della poetessa milanese.

Sempre in quell’anno la Merini conosce Ettore Carniti, panettiere e parente del famoso sindacalista Pierre. Si sposarono l’anno dopo. Amore? La figlia Emanuela a questo punto lascia la parola alla madre: «In questo stanzone stavamo tutti e cinque, accampati, con delle reti, allora sono andata con il primo che mi è capitato perché non ce la facevo più. Avevo 23 anni, dove dormivo scusate?». Non era il suo ideale, ma tra loro c’era tenerezza, tolleranza e pure litigi, ma più che altro per ragioni minori. Ebbero quattro figlie.

Il 1955 è l’anno critico: muore suo padre, nasce la prima figlia, ha turbamenti amorosi verso un medico. A questi dedica la raccolta poetica ma rifiuta di andare a vivere con lui. Questo amore infelice coincide con l’inizio di 20 anni di silenzio creativo, che esprime il sentirsi tradita da quel mondo letterario che l’aveva accolta e le aveva permesso di sentirsi protagonista. Il ripiegamento interiore s’accentua, soffre il menage quotidiano anche se tiene ordine i 45 metri di casa dove è difficile lo scambio di affetti di due persone che hanno orari opposti. Ettore andava a lavorare verso mezzanotte. La sera andava a giocare a carte, malgrado la fatica. Capitò che per dissidi e incomprensioni il panettiere rimaneva lontano da casa, ma sua figlia Emanuela verrà poi a sapere la verità: dormiva alla stazione Centrale. Alda contatta gli editori, ma senza risultati. Vittorio Sereni della Mondadori nel ‘62 legge qualcosa di suo, ma afferma che «non è ancora matura». Quattro poesie vanno a Piero Chiara. Scheiwiller si fa intermediario con l’editore Cino del Duca. Né l’uno né l’altro interrompono la sua assenza dalla scena letteraria. I turbamenti crescono. Testimonia la figlia: «Mia madre non riusciva ad adeguare i propri desideri alla realtà e la realtà non era quella che s’aspettava. Così lo sconforto aumentava di giorno in giorno».

Un giorno il marito rientra a casa e la trova in uno stato di forte agitazione. Fa due misteriose telefonate e nel quartiere si sente il suono della Croce Verde. La Merini urlante entra al manicomio Paolo Pini. Anni dopo confesserà di aver sentito il cervello intorpidirsi, pur convinta di essere moglie e madre felice. «Insomma – dirà a una giornalista nel 2004 – ho avuto una vita normale, è dopo che è successo il patatrac. È successo che mio marito si è innamorato di qualcun’altra, penso, ma non ne ho mai avuto le prove, è una vita che le cerco invano». La figlia Emanuela si dice convinta che sua madre abbia esagerato nell’attribuire colpe al marito e in genere alla situazione di disagio e povertà. Il calvario manicomiale inizia una domenica del ’65. Racconta Alda: «Era un labirinto… la sera vennero abbassate le sbarre di protezione e si produsse un caos infernale… fui internata a mia insaputa, e io nemmeno sapevo dell’esistenza degli ospedali psichiatrici… mi misi a calciare e urlare con tutta la forza che avevo dentro, con il risultato che fui legata e martellata di iniezioni calmanti… il manicomio era saturo di fortissimi odori… molta gente orinava e defecava per terra». In una poesia fa riferimento esplicito alla “Cerletti”, ossia al neurologo ideatore della terapia elettroconvulsivante, l’elettroshock. E scriverà: «…era in quel momento che la Gestapo vinceva».

L’autrice di questa altalenante e dolorosa biografia scrive di essersi resa conto che la sua mamma era in un edificio che somigliava a un carcere, ma all’inizio era troppo piccola per essere consapevole della pazzia: «Ogni tanto prendevo il tram e andavo da sola a trovarla al Paolo Pini, molte volte quando mi scorgeva gridava “Vai via, vai via“, probabilmente non voleva che la vedessi chiusa lì dentro e in quello stato… i malati stavano lì, senza far nulla, e venivano riempiti di farmaci o legati al letto… elettroshock, docce fredde, coma insulinico… l’unica cosa bella era il parco…». Quando Alda esce, nel ’78, Emanuela si accorge d’essere additata come “la figlia della matta”. E Alda, ovviamente, “la matta”. Dopo la nascita della terza figlia ci fu un altro ricovero. Una bambina in brefotrofio, una a Torino (non tornerà più) e nel ’71 Emanuela, a 15 anni, esce di casa. Raggiunge il fidanzato a Omegna, ramo settentrionale del lago d’Orta (Piemonte). Qui si specializza come infermiera psichiatrica e contribuisce a far nascere il primo centro di salute mentale, grazie alla legge Basaglia. Confessa nel libro: «Certo, è chiaro che questo mestiere l’ho scelto per la storia che ho. In fondo è sempre così, si curano gli altri per curare anche se stessi, guardando negli altri guardi dentro di te, e cerchi di conoscerti».

Lunghi anni in manicomio, certo, ma per Alda Merini non furono un totale black-out. «Non perse mai il contatto con la realtà, con i suoi desideri… non s’arrese mai e non smise praticamente mai di scrivere». Fu un medico a conservare i suoi fogli: quelle poesie furono pubblicate nel 2008 (Lettere al dottor G.). Nell’83 Ettore muore per tumore ai polmoni: «Fino alla fine – scrive la figlia – hanno avuto un rapporto intensissimo e complesso. Anche complicato, ma non hanno mai smesso di stare insieme». In quegli anni Alda si sente spesso con il medico e poeta napoletano Michele Pierri, abitante a Taranto. Così spesso che dopo un po’ la figlia s’accorge che c’è da pagare una bolletta telefonica di cinque milioni di lire. Termina in parte il suo silenzio editoriale, anche se a farla riemergere nel 1980 è l’editore toscano Lalli, che nulla stampava senza farsi pagare. In una delle pagine si legge: «…io sono poeta/ e poeta rimasi tra le sbarre». In quell’anno compone La Terra Santa, che Maria Corti giudica il suo capolavoro. Escono raccolte ciclostilate, opere che paiono clandestine in un panorama che, come scrive Emanuela Carniti, «è diventato industria culturale, che ha bisogno di tirature alte, e alla figura dell’editore di ricerca va sostituendosi quella del manager il cui obiettivo primario è fare grandi numeri».

Continua a scrivere, ma s’addentra anche in crisi mistiche. Dice di volersi far suora di clausura. «Non avrò la grazia di vedere i miei libri ma ho aspettato e mendicato troppo a lungo». Ancora una svolta importante. Emanuela così la racconta: «Mia madre si trasferisce a Taranto e il 6 ottobre dell’’84 sposò con matrimonio morganatico, il vecchio poeta: lei aveva 53 anni, lui 85». Alda avverte Maria Corti: «Michele e io siamo felici e abbiamo avviato le pratiche per il manicomio». Un lapsus indicativo, dice Emanuela, «d’una memoria e di una paura impresse a fuoco nella mente di mia madre». La poetessa non era mai stata al mare. Furono anni sereni. In quel periodo manda, su suggerimento della Corti, all’editore Manni di Lecce la raccolta Come polvere o vento. Sarà pubblicata più tardi per un disguido postale. Nell’introduzione, il critico Giulio Ferroni scrive: «Una sorta di turbine poetico agita la voce e l’esistenza di Alda Merini. La sua poesia sfugge ad ogni definizione, a linee, a tendenze, a gruppi, come sfugge ad ogni distinzione di fasi e momenti… si affida volta per volta alle occasioni del vivere… poesia come totalità dell’esistere…».

Iniziano gli anni più generosi: scrive, incontra gente, vede i suoi libri pubblicati. Dopo la morte del novantenne Pierri, Alda torna a Milano. Qualche stravaganza continua a farla, come per esempio di acquistare una vasca idromassaggio per corrispondenza. Riallaccia le vecchie amicizie. È Giovanni Raboni ad aiutarla a inserirsi negli ambienti culturali. Spesso andava al bar Chimera, in Porta Ticinese, con la sua macchina da scrivere e vendeva le sue poesie a mille lire l’una. Raboni cura una sua raccolta di poesie, Testamento, che esce con l’editore Crocetti. Altre pubblicazioni, e, come riferisce sua figlia Emanuela, «la sua presenza diventò quasi ingombrante… gli editori fanno a gara a pubblicare i suoi versi». Arriva la televisione, la Merini è una delle ospiti più assidue del Maurizio Costanzo show. Milva canta i suoi versi, il teatro si occupa di lei grazie a Monica Guerritore.

Emanuela Carniti, in questa straordinaria ricostruzione della vita agitata di Alda, non opera censure. Non nasconde le sofferenze che lei stessa ha patito per il carattere di una donna che è sempre stata «prevaricatrice». Emanuela è sincera: «Mamma ti toglieva la tua identità, ti derubava di te stesso». Era marcato il suo lato vampiresco. Nel quartiere dei Navigli, la Merini era rispettata e riverita. «Lei era molto generosa, però pretendeva tantissimo» racconta la figlia. Nel 1995 ottiene i benefici della legge Bacchelli  (sussidio statale per gli artisti in difficoltà), nel 1996, con Ballate pagane (Einaudi), vince il Premio Viareggio. Nel 2009 le diagnosticano un tumore alle ossa. In più è diabetica. Gli ultimi anni li passa nella sua piccola casa, il piccolo museo delle sue memorie. C’è stato qualche ricovero, per la terapia. Mai ha smesso di fumare tanto, anche in corsia. A un medico che la redarguisce, risponde: «Caro dottore, oramai mi rimane questa sigaretta e il primo bacio di Gesù». Il primo novembre se ne va per sempre. Solo pochi anni prima si parlava di lei come possibile candidata al Nobel.

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