Roberto Mussapi
Every beat of my heart

Il canto di Scrooge

Tra Dickens e Walt Disney, sommi punti di riferimento su cui esercitare l’arte dell’imitazione, Roberto Mussapi regala a Succedeoggi brani del suo “Racconto di Natale”, una navigazione verso il tesoro più ambito: la scoperta di sé, nell’amore

Tra i primi libri che lessi, a casa, a sei anni, mentre nella prima elementare apprendevo i rudimenti dell’alfabeto, subito due mi folgorarono: L’isola del tesoroe Moby Dick. Ne trascurai tanti altri, sentimentali, Senza famiglia, Piccole donne che a volte poi crescevano, fui incantato dai due di avventura di mare. A quei libri magnificamente illustrati e in edizioni ridotte per bambini se ne affiancò immediatamente un altro, e per anni non avrei capito bene perché, non essendo di mare, né esplicitamente di avventura. Ma ero un bambino intelligente: sentivo che se qualcosa ti rapisce non devi porti troppe domande. Molti anni dopo, avendo lavorato sui due libri e i loro autori, e sul terzo, compresi che Il racconto di Natale o Canto di Natale di Charles Dickens era entrato immediatamente nella mia mitologia, per sempre, essendo, come i primi due, libro di un viaggio meraviglioso, una navigazione: non in mare ma nel cielo, non verso una balena o un tesoro, ma verso la preda e il tesoro più ambiti spesso inarrivabili per ogni uomo: la scoperta di sé, nell’amore. L’avaro misantropo Scrooge, seguendo tre spiriti la notte della vigilia di Natale aveva scoperto sé sesso, rinascendo nel miracolo natalizio.
Era il terzo grande libro di navigazione, il protagonista non era un baleniere duro e misticamente ossesso, né un ragazzo generoso e avventuroso, ma un vecchio usuraio della City, della Londra ottocentesca,vagando tra nebbie non oceaniche ma metropolitane, salendo verso un cielo londinese, e poi assoluto.
Non avrei tradotto quel capolavoro, lo avrei riscritto, ne avrei fatto uno mio, in ossequio alla regola dell’imitazione che ci insegnano i massimi, Virgilio con Omero e Dante con Virgilio. Scrissi il mio Racconto di Natale in versi, un libro mio, di poesia, stesso luogo, stessi personaggi, ma un libro nuovo, di Roberto Mussapi, che uscì presso Guanda… Realizzavo un altro mio sogno. Non imitavo solo Dickens, ma anche il geniale Walt Disney, che ispirandosi alla storia di Scrooge aveva realizzato un capolavoro, il cartone animato Canto di Natale di Topolino.
Oggi, tre giorni prima di Natale, propongo ai lettori l’inizio del libro. Sabato prossimo, a Natale compiuto e nel brivido dell’anno venturo, la parte finale. Buon Natale.

 

Racconto di Natale

Faceva sempre più freddo, e la nebbia infittiva.

Un freddo che penetrava, mordeva, tagliava.

Fin dal mattino l’atmosfera era nebbiosa,

tagliente e livida sembrava ferire le persone

che si picchiavano il petto con le mani,

correndo, pestando i piedi sul selciato.

Già dopo il battito delle tre del pomeriggio era buio,

per tutto il giorno non c’era stata vera luce,

le fiamme delle candele intraviste dai vetri appannati

sembravano frittelle rosse sulla densa aria bruna.

La nebbia penetrava da ogni fessura, da ogni foro,

ed era così fitta che dallo stretto cortile

le case di fronte apparivano incorporee e spettrali.

Le nuvole nere calavano rapidamente sui tetti e sulle strade,

come se il cielo tramasse un giorno funesto e cupo,

peccato, era la vigilia di Natale.

 

La porta del suo ufficio era aperta,

così poteva vedere l’impiegato che copiava,

nel freddo alimentato da un misero fuoco,

lettere, fogli di carta che a poco a poco l’inchiostro segnava.

Il suo camino aveva poco carbone,

ma meno ancora quello dell’impiegato:

il secchio era da lui, ben custodito,

e quando entrava l’impiegato con la pala,

gli diceva di non scherzare col fuoco.

Così l’altro cercava di riscaldarsi con la sciarpona,

avvolta e riavvolta sul collo e sui polmoni,

e con la fiamma della candela che intensamente fissava,

come bastasse la semplice immaginazione.

Era venuto il nipote ad augurargli buon Natale,

ma lo aveva respinto, perché odiava quella data:

il giorno in cui si paga e non si riceve,

in cui si riposa e non si lavora,

il giorno inetto, malinconico e nero.

«Che cosa ti ha mai dato il Natale?»

«La sensazione di una festa comune,

nient’altro, zio, ma sapere che non sono solo,

anche se per un giorno dell’anno, un giorno breve.»

«Buona sera», questo fu il congedo

mentre il nipote si allontanava nel gelo

del corridoio e delle strade urbane

infagottato nella giacca e nel cappottone,

con la sua lunga sciarpa che veleggiava nel buio.

Poi ci furono i due con l’aria da simpaticoni,

due benefattori nell’occasione del Natale.

«In questi giorni il freddo è più intenso,

i poveri soffrono di più per la mancanza del fuoco,

i benestanti festeggiano con vino e capponi,

sembra il momento adatto per aprire il borsellino.»

«Ci sono le prigioni, e gli ospizi, spero,

e le leggi per i diseredati.

Non ho molta voglia di comparire.»

«Vuole restare anonimo?»

«Voglio restare in pace.»

Così se ne andarono dalla porta semichiusa,

nel gelo del corridoio e delle strade.

Intanto la nebbia e il buio si erano fatti di pietra,

e ombre procedevano nel nero con torce accese

per guidare i cavalli lungo le vie.

Anche la vecchia campana che dalla torre fissava il suo ufficio

scomparve nella bruma battendo invisibili ore.

Operai che riparavano i tubi del gas al fondo della strada

avevano acceso un gran fuoco in un braciere,

e attorno ragazzi e uomini stracciati

raccolti d’incanto si strofinavano le mani

chiudendo gli occhi umidi per la fiammata,

mentre la fontana di dietro era gelata,

e solo una lastra di ghiaccio l’acqua dilagata,

a pochi passi da loro, ostile, da quel fuoco.

Le bacche d’agrifoglio brillavano nelle vetrine

arrossando i volti pallidi di chi passava,

e le botteghe dei pollami, le drogherie,

sembravano porti mediorientali e fastosi,

e il povero sarto preparava solennemente il budino,

e sua moglie per l’anatra rompeva il salvadanaio.

Poi ci fu un naso giovane e corto stritolato dal gelo

che apparve dalla porta mentre la voce

sotto quel naso intonava un canto di Natale,

ma lui prese un righello e lo brandì nell’aria gelata,

e il cantante fuggì atterrito con il suo gelido naso.

Poi venne l’ora della chiusura, il malumore,

la licenza concessa malvolentieri all’impiegato,

per l’indomani, il giorno di Natale,

a patto che il mattino del ventisei fosse puntuale.

Poi l’impiegato che si allontanava,

la sciarpa che sostituiva cappotto e altre cose,

la porta che si chiuse, il grugnito,

non capiva perché quell’altro correva come nella neve

fanno i bambini alla vigilia di Natale.

La solita melanconica taverna,

il pasto rapido e acido, la scorsa ai giornali,

e il cortile di casa, così buio,

che anche per lui che lo conosceva bene

fu un viaggio a tentoni, nella nebbia rabbiosa.

Poi il batacchio, il solito batacchio del portone,

rivisto e riconosciuto ogni sera e mattino.

Ma quella volta fu un viso, Marley,

il socio morto sette anni prima,

e mentre lui lo fissava nella sua luce cupa,

come un’aragosta andata a male nel buio di una cantina,

il viso scintillò e scomparve sul rame,

e l’ombra ritornò sovrana e uguale.

(continua)

Roberto Mussapi

 

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