Lidia Lombardi
All'Ambasciata britannica a Roma

I colori di Roma

Daniele Costantini presenta, nel suggestivo scenario di Villa Wolkonsky, il suo documentario su Memmo Mancini, storico fornitore di attrezzatura per artisti. Colori, pennelli e segreti che legano la capitale all'arte

La Roma più nascosta in uno spicchio di territorio del Regno Unito. L’hanno scoperta qualche giorno fa gli ospiti dell’Ambasciatore britannico nella Capitale, Jill Morris, che ha aperto le porte della sua residenza, Villa Wolkonsky, per la proiezione di un docufilm prodotto dall’Istituto Luce, Il venditore di colori, di Daniele Costantini. Doppia scoperta, si diceva. Della villa in collina, inimmaginabile scrigno della città imperiale, cinquecentesca, ottocentesca, che si cela dietro un severo cancello e un lungo muro di recinzione. E di un personaggio suggestivo nella sua schietta romanità e nel suo collocarsi, in punta di piedi, al crocevia dell’arte del Novecento, così come si snodava da via Margutta a piazza del Popolo, da Ripetta al Pantheon e a piazza del Collegio Romano. Perché il protagonista della pellicola è Memmo Mancini, che da decenni – era il 1962 – sta dietro i banconi della ditta G. Poggi, un’insegna mai cambiata in via del Gesù, il tempio di tutto quello che serve a chi disegna o dipinge. Da quando aveva diciotto anni Memmo ha cominciato a lavorare, come garzone, in quella che era nata nel 1825 come una “mesticheria” (lo ricorda divertito e bonario dietro gli occhiali grandi, evocando anche Anna Magnani che veniva a comprare il petrolio da regalare perché potesse accendere la stufa un vicino di casa, male in arnese). Insomma, una bottega che smerciava indifferentemente supporti per la pittura e saponi, pigmenti e bottiglie di liquore, pennelli, acquerelli, tubetti di colore a olio e pettini, profumi, zibibbo e cannella.

Scomparso il primo proprietario, Gaetano, e continuata l’attività per l’impegno degli eredi, Memmo è diventato l’anima del negozio di via del Gesù, infallibile conoscitore di cartoni, tele e telai, di misture di pigmenti (imbustati come polveri alchemiche nel sottobottega, che Mancini si diverte a definire un perfetto sfondo da “film horror alla Boris Karloff”). E proprio il discreto consiglio che è stato capace di fornire a ogni artista ne ha fatto negli anni il mentore, l’amico, il confidente. Ha orientato le scelte di Towmbly e di Morandi, di De Chirico e degli esponenti della Transavanguardia. E poi il sodalizio con l’irregolare Mario Schifano, che gli affidava fiducioso pensieri e tele da traslocare nei suoi svariati studi, da Vicolo delle Grotte a via del Panico a piazza in Piscinula, dove Marco Ferreri girò scene di un film. Ecco l’assistenza fornita a Guttuso, che «lavorava con l’inchiostro di china più raffinato, di quello che non si trova più», dice Memmo nostalgico. La voce gli s’incrina alla rievocazione delle visite quotidiane fatta al pittore della Vucciria a Palazzo del Grillo, dove i pomeriggi il Maestro, l’eterna sigaretta in bocca, «giocava a carte, e ci andavano Moravia e Bufalini, Andreotti e Trombadori» e poi negli ultimi tempi era stanco, malato.

Costantini intervalla i primi piani di Memmo ai quadri che ha visto creare di seduta in seduta, o all’andirivieni di clienti tra gli scaffali della Ditta Poggi, dal dilettante («ma mi raccomando, non smettere mai di dipingere» ammonisce affettuoso il venditore di colori) all’esigente artista venuto da lontano. E documenti rari, girati col superotto o qualche piccola cinepresa casalinga, impreziosiscono il film: come l’incontro di Fellini con Balthus, che doveva fargli un ritratto poi mai realizzato, ancorché il Riminese attendesse con curiosità di vedere cosa l’artista francese avrebbe scoperto nel suo volto. Memmo tira fuori dal proprio cuore affettuosi retroscena su Balthus, l’ansia per il reperimento di quella carta particolare, corposa, che lo ispirava, per esempio. Poi cede la scena all’altro “attore” del documentario, Setsuko Klossowska De Rola, la sposa giapponese dell’artista. Il kimono la veste per tutta la vita e nelle varie scene, quando tornando a Roma va a trovare Memmo in via del Gesù, quando ripercorre agli anni trascorsi a Villa Medici allorché il marito divenne direttore dell’Accademia di Francia e nella casa, ora sede della Fondaziona Balthus, acquistata in Svizzera, a Rossinière: una dimora tutta in legno, come quelle giapponesi, e che per questo “mi piacque subito”. Qui arrivava Memmo da Roma trasportando sul camioncino tutto quello che al Maestro serviva per dipingere. Qui egli “percepì” il momento della morte del suo grande amico Giacometti, “perché inaspettatamente si sdraiò pallido sul letto e attese”, spiega Setsuko.

L’altra sera, a Villa Wolkonsky, seduto accanto all’Ambasciatore Morris, Memmo Mancini ha seguito assorto i fotogrammi, se ne è imbevuto fino all’epilogo, quando dà le spalle alla saracinesca tirata giù a fine giornata e si avvia quieto sul marciapiede angusto di via del Gesù, mentre la colonna sonora restituisce la sua voce che canta in romanesco.

Il carisma estetico di Roma, svelato nel documentario su Mancini e i suoi amici artisti, raddoppia all’uscita dalla Villa – tra gli ospiti Laura Morante e la principessa Elettra Marconi – con la veduta, nel verde notturno del parco, delle arcate dell’acquedotto neroniano, delle candide statue dei santi sulla facciata della Basilica di San Giovanni, del cono stretto dell’Obelisco nella piazza del Laterano. Il gemellaggio dell’Ambasciata britannica con la città si è replicato la sera successiva, con una conversazione sulle leadership femminili (delle quali la bionda Jill Morris è esempio) e la proiezione alla presenza della scrittrice e produttrice televisiva Daisy Goodwin del primo episodio della terza serie di “Victoria”, sul trono d’Inghilterra per 63 anni. La due giorni nella disvelata Villa Wolkonsky preludono a un 2020 ricco di iniziative UK-Italy in collaborazione con il British Council. Almeno nel campo degli scambi culturali la Brexit è all’angolo.

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