Flavio Fusi
Diario di un decennio che sfugge/1

Dieci anni perduti?

Le vittime di Haiti, i "sognatori" della rivoluzione arancione di Kiev; l'utopia di Obama e l'inossidabilità di Putin; L'immobilismo della regina d'Inghilterra e il luna park ideologico che guida brexit. Che cosa rimarrà degli anni Dieci?

Volete un giorno, un giorno qualsiasi, del decennio appena trascorso? Scelgo il 7 febbraio 2010, scelgo il centro di Kiev, viale Kreschatyc a venti gradi sotto zero e il vento che taglia la faccia come un rasoio, nella sera in cui fu sconfitta la giovane rivoluzione arancione, con la rivincita degli oligarchi, con le bandiere che si ripiegano meste, con il ritorno a testa bassa verso le periferie gelate. Eravamo allora in quattro, sul marciapiede di vetro che portava a Piazza Maidan: insieme a me: Kirill, Oleg e Grisha con la sua telecamera.

O chiedete un altro giorno, di festa stavolta? Eccolo: 12 ottobre 2010, dopo tre mesi nelle viscere della terra i sepolti vivi della miniera cilena di San José di Copiapò tornano a veder le stelle. Una capsula “lunare” li accompagna uno per uno dal buio di una caverna profonda settecento metri alla luce abbacinante della superficie. Sono trentatré, e di loro scelgo a caso due nomi: Florencio Avalos e Daniel Esteban Herrera. Spariti anche loro – appena il tempo di scoprirsi vivi – in un anonimato proletario, dopo le telecamere, gli abbracci, le interviste, il circo mediatico, la mondo-visione.

Dieci anni sono un’epoca intera. Per dire: nel decennio che si chiude, l’America ha avuto come presidenti Barak Obama e Donald Trump: la speranza e la delusione, il nero e il suprematista, il fascino giovanile e la bolsa aggressività del settantenne. La stessa America nello spazio di dieci anni ha prodotto questi due campioni, e tanti saluti alla filosofia della storia, alle sorti magnifiche e progressive dell’umanità.

Certo, nel pianeta c’è anche chi resiste tra un decennio e l’altro. Prendete Vladimir Vladimirovic Putin, da venti anni padrone assoluto di una Russia che sogna di essere un impero, e i cui cittadini hanno una aspettativa di vita che non supera i cinquantacinque anni. Aspira ormai all’eternità, l’ex modesto funzionario del Kgb sovietico, e con lui una pletora di dittatori e dittatorelli, sparsi per le vie del pianeta.

I decenni della Regina Elisabetta, tanto per dire, non si contano più. La vegliarda che regna nel castello di Windsor ha incontrato nella sua lunga carriera ben dodici presidenti americani, da Henry Truman a Richard Nixon, da John Kennedy a Bill Clinton, da Bush Junior a The Donald. Il ritmo dell’antico impero sul Tamigi è del resto lento e compassato, e la sua secolare classe politica ha consumato buona parte del decennio appena trascorso in un estenuante balletto intorno alla Brexit: uscire o non uscire, essere o non essere?

Che dire infine del nostro bel Paese? anche noi nel nostro piccolo abbiamo campioni di longevità. Ciriaco De Mita, che fu segretario della Dc nel pleistocene, è nuovissimo sindaco di Nusco, e i cittadini non se ne lamentano. Il verbo uscire non è contemplato nel vocabolario politico degli statisti nostrani.

Le statistiche dicono che il decennio è stato uno dei più felici per il pianeta. Come no? Sono morti meno disgraziati, la fame nel mondo è diminuita di uno zero virgola, le guerre hanno risparmiato qualche migliaio di persone in più rispetto alla decade precedente, quella che toccò la boa del 2000, entrò trionfante nel terzo millennio e un anno dopo fu gelata dall’ impossibile attentato alle Torri gemelle. Noi che nello splendore di Times Square, tra brindisi e fuochi d’artificio abbiamo salutato ignari la fine della storia, poco più di un anno dopo ci siamo trovati a contare i morti nel falò acceso al centro della capitale del mondo.

E a proposito di anniversari, tra meno di due anni potremo celebrare il ventennio della guerra in Afghanistan, una scaramuccia che doveva durare qualche mese e che sta ancora lì come una vecchia filastrocca con i suoi 140mila morti e con qualche milione di sfollati al modico prezzo di 900 miliardi di dollari.

In America Latina gli storici e i giornalisti hanno il gusto di battezzare i decenni. Così sui libri di storia, l’età delle dittature si chiama “decada infame” e l’età delle crisi economiche va sotto il capitolo di “decada perdida”, decennio perduto. Dunque, come chiameremo il decennio che si chiude tra pochi giorni? Se solo dovessimo volgere lo sguardo su Haiti – un paese che sta al di là di ogni radar di civiltà e compassione – il termine “indegno” sarebbe appena adeguato. Ecco, le cronache di oggi ci informano che nell’ultimo decennio proprio ad Haiti centinaia di orfani sono nati da abusi dei Caschi blu su ragazze minorenni (un termine gentile per non dire: bambine). Stupratori quegli stessi gentiluomini della missione Onu che fu inviata a Port Au Prince per soccorrere le popolazioni colpite dal terremoto del 2010 e poi dall’uragano Matthew del 2016.

E noi – dico noi formichine, pulviscolo individuale, materia prima per le statistiche – siamo migliori o peggiori di fronte al decennio che tramonta? Di Kirill, Oleg e Grisha non saprei dire, come non saprei dire dei tanti ragazzi e ragazze che incontrammo dieci anni fa nelle strade gelate di Kiev. Di Florencio Avalos e di Daniel Esteban Herrera meno che meno: staranno ancora a dannarsi dentro le viscere della terra, o forse sono in pensione, a raccontare ai nipoti quella lontana avventura. Degli orfani di Haiti e delle loro madri bambine, il mondo non ha mai avuto coscienza. Nei brindisi di fine anno, intorno al desco casalingo, i caschi blu dell’Onu potranno esclamare, alla maniera di Shakespeare: “È stato tanti anni fa, e poi la ragazza è morta…”.

Io posso solo parlare per me. Dieci anni sono di volta in volta pesanti e leggeri, si riconoscono nelle mani, si riconoscono allo specchio e nei sogni notturni. Dirò soltanto che ogni mattina, quando mi affaccio alla finestra, vedo un paesaggio diverso da allora. Ma questa – come dice lo scrittore – è un’altra storia.

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