Flavio Fusi
Cronache infedeli

Questione di pelle

In origine c'era il conflitto tra “moros y cristianos”, ora è tra bianchi e neri: l'America Latina (dal Cile alla Bolivia) continua a patire un problema secolare. Quello tra i discendenti degli invasori e quelli degli indios

Un piatto povero della cucina cubana è “moros y cristianos”: una semplice insalata di fagioli neri e riso bianco. La ricetta è saporita senza pretese, ma nella sua semplicità può essere assunta anche nel cielo delle metafore politiche. Perché anche a Cuba, patria del malridotto comunismo caraibico, la centenaria questione tra mori e cristiani – bianchi e neri – non è mai stata risolta. Resta lì come un corpo insepolto, malamente occultato dal sudario multicolore dell’ideologia e della retorica di regime. Del resto, basta uno sguardo a un qualsiasi documento d’identità per scoprire l’antico cadavere. Quelle tre lettere impresse sulla carta: b,m,n (blanco, mestizo, negro) che accompagnano ogni cubano dalla nascita alla morte sono un marchio indelebile di diversità. Di questo, a Cuba non si può parlare, o meglio: è sconsigliato parlare. Fa testo il caso dello scrittore Roberto Zurbano che dopo aver pubblicato un testo di aspra denuncia sul New York Times (“Per i neri di Cuba la rivoluzione non è mai cominciata”) è stato immediatamente destituito dal prestigioso incarico di direttore delle edizioni Casas de las Americas.

Nel resto del Continente, la questione tra mori e cristiani  (per restare nella metafora) è centrale fin dalla indipendenza dai reami di Spagna e Portogallo, e arriva – scandalosamente  squadernata o pudicamente mascherata – sino ai giorni nostri. La storia dell’America Latina è la storia della divisione, della incomunicabilità, della rivalità e del conflitto tra bianchi da una parte e neri, mestizos, meticci, indios, dall’altra. Ogni capitolo del libro può essere letto in questa chiave: questione di pelle, per dirla brutalmente, che diventa di volta in volta questione di classe, questione politica, questione sociologica, questione filosofica.

Nel Cono Sud i bianchi colonizzatori si illusero di aver chiuso la partita con lo spicciativo massacro degli indios dalla Terra del Fuoco alle pampas argentine, fino alla giungla dell’Iguazù. La conquista del desierto, che durò fino all’alba del ventesimo secolo, fu piuttosto la liquidazione in massa dei nativi. Illusi: la questione della pelle si trasformò automaticamente in questione di classe: nel continente, infatti, non c’è luogo più classista dell’Argentina e del Cile. A Buenos Aires i palazzi in estilo frances che sorgono intorno alla Recoleta sono dotati di due ascensori, uno per gli inquilini della buona borghesia bianca, l’altro – angusto – per la mucama, la donna di servizio, la sguattera senza diritti che di solito viene dal Nord misero e meticcio: così il tabù dello scambio di sangue diventa tabù dello scambio di contatto e di sguardo. E con l’ultimo atto della dittatura, furono i figli della mucama, non i figli della buona borghesia bianca, ad essere mandati al macello nella dissennata guerra delle Malvinas.

In Cile, le cronache di questi giorni ce lo ricordano, il grande scontro sociale tra ricchi e poveri è anche divisione etnica e geografica, tra i quartieri bianchi dolcemente appollaiati sulle colline e la suburra nera dei quartieri poveri ammassati nella conca cittadina che ribolle in basso. E vale forse la pena ricordare che l’innesco della ribellione fu l’assassinio – un anno fa – dell’attivista di etnia mapuche Camilo Catrillanca, fucilato in strada da un agente del “comando Jungla” dei carabineros de Chile.

La questione india è infine al centro della sanguinosa crisi boliviana. Lo scontro, nato sul terreno della politica dopo l’azzardo del presidente Evo Morales e la rivolta popolare contro i brogli elettorali, si è presto trasformato in una resa dei conti tra bianchi e neri, in una truce rivalsa storica tra “pezzi di società” che quando non si ignorano si detestano e si fronteggiano. È diventato infine confronto anche geografico, tra le province orientali a maggioranza bianca (la “mezza luna”) e province occidentali e altos a prevalenza india. La contraddizione non è così elementare. Negli anni, all’interno della componente india, Evo Morales aveva accumulato divisioni, rancori e opposizioni, per la sua politica estrattivista, per la strada che taglia il polmone verde amazzonico imposta alle comunità dei nativi, per il conflitto con clan e tribù. Nell’ultima fase della presidenza, molti gruppi indigeni dissidenti e molti attivisti accusavano Morales di sostenere lo sfruttamento economico di rapina senza curarsi della devastazione dell’ ambiente e della distruzione delle comunità rurali. “Evo contro Evo”, come scrive Raùl Zibechi in un severo editoriale della rivista Brecha.

Questo quadro complesso che metteva in gioco la politica alta e il giudizio sul governo del Paese è oggi spazzato via dalla elementare e brutale contrapposizione tra bianchi e neri.  Il futuro è fosco se le immagini che oggi campeggiano sui giornali sono la Bibbia imbracciata come una clava dalla presidente ad interim (la bianca Jeanine Anez) e la bandiera dei popoli indios, la Whipala, strappata e data alle fiamme per le strade delle città boliviane.

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