Lidia Lombardi
Al Teatro Nazionale di Roma

Il Flaiano redivivo

Vittorio Montalti e Giuliano Compagno fanno rivivere in un'opera originale il clamoroso insuccesso del "Marziano a Roma" di Flaiano: ma la vera protagonista è la Capitale, una illusione marcia e irredimibile

Cinquantanove anni fa, il 23 novembre 1960, al Lirico di Milano fu accanitamente fischiato Un marziano a Roma, adattamento teatrale del racconto di Ennio Flaiano. A interpretarlo ,uno sprovveduto ancorché mattatore Vittorio Gassman, che aveva creduto in quell’azzardo. Ovvero proporre al pubblico meneghino, vanitoso per la propria opulenta operosità, uno squarcio dello spleen capitolino, quel tirare a campare da Dolce Vita. Al quale era in fondo stato estraneo Ennio Flaiano, che frequentava sì via Veneto e Fellini, ma era rimasto in realtà un timido ironico provinciale abruzzese, che bazzicava la letteratura senza farsi fagocitare dai circoli snob ed engagé, leggi Moravia e Co.

Quel colossale fiasco – commentato da Flaiano con uno dei suoi aforismi («L’insuccesso mi ha dato alla testa») – è l’avvio di una curiosa opera appena portata in scena in prima assoluta al Teatro Nazionale di Roma, Un romano a Marte – musica di Vittorio Montalti su libretto di Giuliano Compagno – che ha conquistato il premio di composizione bandito dall’ente lirico capitolino e che al debutto ha ricevuto molti applausi, anche alla prova generale riservata ai giovani. Un lavoro ambizioso, diciamo subito. Che contamina più registri, sia nella parte musicale – canto e suoni elettronici e industriali, orchestra e gorgheggi di un tenore, un soprano e un basso, oltre al parlato – sia in quella visiva (alla scenografia che allude a un teatro, con attrezzeria e sedie di platea, si aggiunge sullo sfondo uno schermo che proietta immagini di Roma e parole dalle rosse impositive lettere). Il puzzle si dispiega infine nei personaggi sul palco: tre cantanti lirici, due attori, due silenziosi mimi in tuta bianca, infermieri pare o tecnici.

Esigua la trama. Flaiano stroncato al Lirico compare in scena come un cadavere disteso sul lettino da obitorio mentre da una botola una giornalista pesta i tasti della macchina per scrivere scandendo a voce alta una sorta di necrologio: «Flaiano non fascista della prima ora né antifascista dell’ultima, non festaiolo, non di ricca famiglia borghese, non assomigliava né a Fellini né ad Antonioni…» sciorina la reporter sfoggiando subito l’ironia, che virerà in sarcasmo, del libretto di Compagno. Ma cala un deus ex machina che lo risveglia, ammesso che non sia l’alter ego dello scrittore abruzzese residente nella sfatta Roma anni Sessanta: è un biondo catarifrangente extraterrestre, Kunt, un tipo ottimista e intraprendente quanto Flaiano è appartato e disincantato. E mentre un critico fa da voce narrante e va avanti e indietro a bordo platea raccontando com’è andata male a Milano, Kunt stringe volentieri amicizia con la diva delusa dello spettacolo, Ilaria Occhini, un’altra deracinée nella Capitale, nipote dello scrittore toscano Giovanni Papini. Fin qui si prospetta una trama. Ma poi l’opera procede per assemblaggio di materiali e suggestioni. Al palco del Lirico si sostituisce per allusioni sceniche Roma, dove una recinzione con il nastro bianco e rosso fa pensare al luogo di un delitto, e da una botola emergono teschi e busti di marmo, esito di una scontata indagine archeologica. «Roma è un cimitero che scoppia di vita», rammenta cinicamente il Critico, e poi spiega dell’aforisma: «Ma no, non è di Flaiano, lo ha detto Fellini». E mentre una bara nera col numero 47 sfila in platea, il marziano in completo bianco prende sempre di più tutta la scena, fino a puntare un’arma contro un Flaiano che balbetta «Gra… gra… grazie di avermi letto». Riecco il nostro Ennio steso a terra come un cadavere e intanto una voce fuori campo avverte che la città era stata invasa dai ladri, anche se «insinuare che fossero ladri era assurdo». Così ci si avvia verso la contemporaneità dove non tiene più campo la letteratura, nemmeno quella dell’emarginato Flaiano, ma dettano legge le parole dei social proiettate sul maxischermo (botox e onestà, colpire uno e digitale). Allora il nostro omino scrittore e sceneggiatore s’invola attaccato a due cavi (come era sceso Kunt) su un cielo romano cupamente vermiglio.

Le sollecitazioni provocate dal lavoro di Compagno e Montalti sono molte. Forse troppe, affastellandosi temi e personaggi. Come nella centrifuga entrata in scena di Caterina Martinelli, vittima dei nazisti nel 1944 mentre assaltava il forno tiburtino, che recita versi del rivoluzionario bulgaro Botev. Ma intriga, al di là della figura di Flaiano, il disegno di una Capitale in progressivo sfacelo, dove si fa fatica a spazzar via la cartaccia che sono diventati i copioni dello scrittore e gli archeologi vengono percepiti come bislacchi. Contribuisce allo straniamento l’assemblaggio da parte di Compagno di materiali giornalistici, citazioni, interviste, considerazioni  talora sarcastiche talaltra drammatiche, insieme con la dissociata recitazione degli interpreti (Gabriele Portoghese è il Critico, Valeria Almerighi prima la donna delle pulizie poi Caterina Martinelli) e dei provetti cantanti, giovani talenti di Fabrica Young Artist del Teatro dell’Opera (Rafaela Albuquerque in panni di Ilaria Occhini, Domingo Pellicola in quelli di Flaiano, Timofei Baranov in quelli di Kunt). La bacchetta di John Axelrod ha diretto con partecipato piglio l’Orchestra dell’Opera, assecondando i molteplici iati delle invenzioni registiche e scenografiche, firmate rispettivamente da Fabio Cherstich e Gianluigi Toccafondo.

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