Gianni Cerasuolo
In margine a un libro di Viola Ardone

I treni e la speranza

Dopo la Seconda Guerra l'Italia era un Paese solidale. Il Pci, per anni e con l'ostracismo palese dei governi e della Chiesa, organizzò un programma di ospitalità di bambini poveri che, per alcuni mesi o anni, riuscivano a mangiare e a crescere presso famiglie "ricche"

Adesso, in un Paese che si guarda con ostilità e sparge odio, sembra impossibile che sia potuto accadere questo fatto. Invece oltre settant’anni fa è successo che 70 mila bambini del Sud, poveri e devastati dalla guerra, venissero aiutati da altri italiani che li ripulirono, gli offrirono casa e un piatto di pasta, li fecero andare a scuola e li restituirono alle famiglie di origine. Per mesi e mesi. Anni. Non si chiamava affido e non risultarono dei casi Bibbiano. La propaganda e le strumentalizzazioni lavoravano anche allora, a destra come a sinistra, e soprattutto al centro con la Dc, i Peppone e i don Camillo avevano il loro daffare e i grandi della Terra giocavano alla guerra fredda. Quel dopoguerra fu terribile. «Fra i vinti la povera gente faceva la fame. Fra i vincitori faceva la fame la povera gente ugualmente» aveva cantato Brecht prima della carneficina.

Furono un train de vie tutto nostro, “i treni della felicità”, una storia piccola e dimenticata di accoglienza e solidarietà. Emarginata (e silenziata dai giornali) anche all’epoca, ai tempi delle macerie, della conta dei morti, degli sciuscià e del mercato nero, «…si nun era ’po’ contrabbando, i’ già stevo ’o camposanto», del tracoma, dei pidocchi e delle tossi da TBC. Ma anche un periodo di generosità e di voglia di ricostruire. Di bella politica. Durò un soffio.

Si è tornato a parlare dei “treni della felicità” organizzati tra il 1945 e il 1951 dal Pci e dall’Udi, la costola femminile del partito, convogli che portarono migliaia di ragazzini dal Centro-Sud verso l’Alta Italia, come si diceva allora, grazie ad un “racconto storico” che fa bella mostra di sé nella top ten dei libri più venduti: Il treno dei bambini di Viola Ardone, edito da Einaudi, costo 17,50 euro. Al centro della vicenda un bambino napoletano di nome Amerigo, altrimenti chiamato Nobèl «perché so un sacco di cose». «Mia mamma avanti e io appresso. Per dentro ai vicoli dei quartieri spagnoli…Io scarpe mie non ne ho avuto mai, porto quelle degli altri e mi fanno sempre male. Mia mamma dice che cammino storto. Non è colpa mia. Sono le scarpe degli altri…». Ci sono scorci di Napoli milionaria quando la Ardone descrive l’ambiente dove vive Amerigo con la madre Antonietta, abbandonata dal marito, che si arrangia con il mercato nero casalingo fatto con l’amante Capa ’e fierro: sotto il letto ci stanno i pacchi di caffè, l’uomo e la donna ogni tanto si appartano e lui sembra Errico “Settebellizze”, il personaggio della commedia di Eduardo. L’autrice, che insegna italiano e latino in un liceo, mischia l’italiano con il dialetto, usato a volte per definire personaggi, cose, gesti. Ecco dunque le donne del vicolo con i loro soprannomi come la Zandragliona e la Pachiochia (cioè una pacioccona ma più spesso una scema), una popolana ben nota ai tempi, monarchica, girava con l’immagine di Umberto di Savoia sul petto e partecipava all’assalto della federazione comunista; ecco espressioni tipo “paliatone” (bastonatura), “allucchi” (grida), “inquartare” (innervosirsi); ecco sostantivi come “solachianiello” (ciabattino). Antonietta viene a conoscenza dell’iniziativa dei comunisti: mandare bambini poveri in Emilia e in altre regioni una volta “rosse” (la Toscana, ma anche la Liguria e le Marche) presso famiglie che avrebbero avuto cura di loro. Ma preti e suore, e gli scudocrociati della fede continuano a dire che quelle anime di Dio avrebbero fatto un fine orribile: i comunisti i bambini se li mangiano, li mandano in Siberia, ne fanno sapone. La diffidenza delle famiglie è grande. Anche Antonietta non vorrebbe. Molti dicono di no, lei si rassegna e lo lascia andare. Quando il primo convoglio sta per partire dalla stazione di Napoli (avvenne nel dicembre del 1946), la Pachiochia arriva, si agita e urla: «Non ve li vendete, i figli vostri. Quelli vi hanno fatto una capa di chiacchiere, ma la verità è che ve li mandano in Siberia a faticare, se prima non muoiono di freddo».

Nel racconto dell’Ardone si muovono personaggi storici come Maurizio Valenzi, allora vicesegretario della federazione del Pci e molti anni dopo sindaco della città, Gaetano Macchiaroli, editore e libraio: a dicembre del 1946 costituirono, sotto la spinta delle dirigenti femminili, il Comitato per la salvezza dei bambini di Napoli presieduto da Giorgio Amendola. Vi svolsero un ruolo attivo medici e pediatri (che poi, sotto pressione, abbandonarono l’impresa), Litza Cittanova, la moglie di Valenzi, che rispondeva in francese alle domande dei poliziotti per confonderli e Lidia Croce che in seguito se ne andò su pressione del padre Benedetto, secondo Macchiaroli. C’era anche Maddalena “Lenuccia” Cerasuolo, che nel libro diventa Maddalena Criscuolo, protagonista della rivolta delle 4 giornate, la quale risponde così alla Pachiochia: «Quando dovevamo cacciare i tedeschi, noi donne abbiamo fatto il nostro. Mamme, figlie, mogli, giovani e vecchie: siamo scese in mezzo alla via e abbiamo combattuto. Voi ci stavate e ci stavo pure io. Questa è come un’altra battaglia, ma contro i nemici più pericolosi: la fame e la povertà. E se voi combattete, vincono i figli vostri!».

I bambini, prima di essere avviati ai treni, vengono lavati e dotati di abiti nuovi e di cappotti. Che non arrivano in Emilia. Perché poco prima della partenza i cappottini vengono lanciati dalle carrozze ai familiari che sostano sulla banchina: sarebbero serviti ai fratelli che restano a Napoli. «A noi ne danno un altro, tanto i comunisti sono ricchi e se li possono permettere».

Ci sono bande musicali e bandiere rosse ad attenderli nelle città e nei paesi. Li ricevono non famiglie benestanti, ma contadine, non trovano il lusso ma il calore dell’accoglienza: perché dove si mangia in sei, si mangia anche in sette, come cantavano i Modena City Rambles («Sui treni del bestiame oggi partono i bambini/sui treni per l’Emilia un bambino per famiglia/…non si aprono ville abbandonate dai ricconi ma il cuore e le case di onesti lavoratori…/E pasta nera / perché dove si mangia in sei si mangia anche in sette…»). Miriam Mafai, che partecipò attivamente all’iniziativa, osservava che allora ci fu «un entrare in contatto di mondi diversi: il mezzadro emiliano e il sottoproletario meridionale».

La paura dei piccini resta tuttavia grande: temono di diventare pietanza per gli orchi che parlano una lingua che non capiscono e che deve essere il russo. Sono spaventati, terrorizzati da un forno che brucia legna, hanno incubi notturni, se vedono il burro fanno cattivi pensieri. E se li portano al mare, temono che li vogliano affogare. Il distacco dalle famiglie deve aver alimentato i terribili racconti che hanno sentito in giro. Molti non danno nemmeno il nome. Gaetano Macchiaroli rivela in quel libro fondamentale ma oramai introvabile sui “treni della felicità” che è Cari bambini, vi aspettiamo con gioia…, scritto da Angiola Minella, Nadia Spano e Ferdinando Terranova, partigiane e poi parlamentari del Pci le prime due, docente universitario il terzo, edito da Teti nel 1980: «Si scoprì poi che i bambini non volevano dire il loro nome e cognome – questo prima che partissero da Napoli  (ndr) – Erano vittime di un racket che “affittava” orfani di padre o illegittimi per utilizzarli come mendicanti o per piccoli traffici illeciti, dando una modesta “paga” alle madri…un uomo di rispetto andò nella sede del Comitato e chiese di parlare con il “capo”». Lo portarono nella federazione comunista e il malvivente venne ricevuto da Salvatore Cacciapuoti, figura di spicco e poi segretario del Pci napoletano, il quale disse solo poche parole decise: «Nuje venimmo da’ stessa fogna…». E quello se ne andò.

Il nuovo ambiente, campagna e nebbia, mettono soggezione ai ragazzini però provocano anche curiosità: dalla neve scambiata per ricotta alla novità assoluta: il gelato, ai prosciutti appesi nelle case. È una diffidenza che dura poco e scompare con il passare dei giorni: la fame, il mangiare insieme attorno ad una tavola e il fuoco acceso contribuiscono a rompere il ghiaccio. Amerigo prenderà a suonare il violino, la famiglia che lo ospita glielo ha fatto costruire da un artigiano; avrà tre “fratelli” dai nomi significativi, militanti: Rivo, Luzio e Nario; vedrà diventare “comunista” la Pachiochia (il Pci la invitò in Emilia e lei si convinse che i ragazzini venivano trattati bene); tornerà a Napoli ma vorrà distaccarsi dalla madre e completarsi altrove come uomo e come musicista. Senza tagliare le sue radici.

Che cosa successe, dunque, in quegli anni? All’inizio del 1946 il Comitato economico di emergenza per l’Europa stilò una relazione sulla situazione alimentare. In essa si diceva che «più di 140 milioni di europei dovranno sostenersi nei prossimi anni con meno di 2000 calorie al giorno: di essi circa 100 milioni non avranno più di 1500 calorie». E fra questi ultimi erano «indicate le popolazioni urbane dell’Italia».

C’era fame, tanta fame in quegli anni. Non soltanto al Sud. I “treni della felicità” (definizione coniata dal sindaco di Modena, Alfeo Corassori) nacquero al Nord, in Alta Italia. Tutto cominciò a Milano nell’autunno del ’45 alcuni mesi dopo la Liberazione e la fine della guerra. Ne parla Dina Ermini in Cari bambini...: «Eravamo ai primi di ottobre del 1945 – racconta la Ermini, che era allora vice responsabile della sezione femminile della Direzione dl Pci per l’Alta Italia, sezione di cui era responsabile Teresa Noce, dirigente prestigiosa, sfuggita alla morte nei campi di sterminio –… Alla sezione femminile venne a trovarci Daria Banfi per chiederci se era possibile che, attraverso il partito, venissero ospitati per l’inverno in Emilia, donde lei era originaria, sette o otto bambini orfani, del suo quartiere, in stato di estremo bisogno». La Ermini parlò con la Noce ed entrambe si rivolsero ad Antonio Roasio, dirigente della delegazione Alta Italia della Direzione, che prese carta e penna e scrisse una lettera ai militanti emiliani: «Il compito che vi sta di fronte è complesso e delicato e richiede una organizzazione perfetta. Non dobbiamo dimenticare quale responsabilità il nostro partito si assume di fronte alle madri che gli dimostrano la loro fiducia affidandogli quanto possiedono di più prezioso: i loro bambini».

La Ermini partì per l’Emilia con l’unica macchina a disposizione del partito. La prima tappa fu Piacenza. Le successive Parma, Reggio, Modena. Non andò a Bologna perché aveva raccolto tante offerte di ospitalità (circa 4500) che «bisognava vedere come organizzarsi». E l’organizzazione cominciò a darsi una struttura con il “gruppo della stufa rossa”. La Noce riunì un piccolo drappello di donne in via Filodrammatici in uno stabile dove aveva trovato una sede provvisoria la delegazione dell’Alta Italia; si vedevano in una stanza che non aveva mobili, era vuota, solo che al centro troneggiava una grande stufa di cotto rossastro. Furono mesi in cui lo slancio delle donne fu straordinario, a volte anche in contrasto con i dirigenti “maschi” insofferenti. Si coinvolsero le donne che guidavano altri partiti: Dc, Psi, Partito d’Azione; si contattarono parroci, sindaci, insegnanti, persino le dame di carità, sebbene la linea fosse quella di sostituire la mortificante beneficenza con la solidarietà. La città e la provincia furono divise in zone: una volta individuati i casi più bisognosi, i bambini vennero rivestiti e sottoposti a rigorose visite mediche per evitare contagi. Un altro punto fermo fu che le famiglie ospitanti non dovessero scegliere loro i bambini: «Nessun bambino doveva essere umiliato».  Da Milano si passò poi a Torino. La prima campagna di ospitalità familiare fornì queste cifre: 4212 ragazzini di Milano e provincia e 1275 di Torino alloggiati per tutto l’inverno 1945-46 presso famiglie emiliane.

Tra il dicembre del ’45 e i primi giorni del gennaio ’46 si svolse a Roma presso l’aula magna dell’Università il V congresso nazionale del Pci, il primo dopo la guerra. Il tema delle gravi difficoltà di sopravvivenza dei bambini e delle loro famiglie nelle zone più colpite dai bombardamenti venne sollevato da un delegato della federazione di Frosinone, Raoul Silvestri, che descrisse la situazione tragica dei bambini di Cassino in una città distrutta dai bombardamenti. E chiese che si facesse la stessa cosa realizzata per i ragazzi di Milano e di Torino. Non ci volle molto a raccogliere adesioni: i delegati di Pavia, Parma, Mantova, Cervia furono i primi a mettere posti a disposizione. Dopo la prima giornata del congresso, già 965 fanciulli di Cassino e della provincia furono invitati a trasferirsi per qualche tempo in altre zone. Anzi l’iniziativa si allargò, oltre che al Frusinate, alla stessa Roma mentre «da Novara si impegnavano a mandare pacchi di indumenti in Basilicata e in Calabria». Il congresso deliberò anche che 900 offerte di disponibilità fossero destinate ai bambini di Napoli e che una commissione andasse a Cassino per portare soldi e organizzare i viaggi. Lo stesso Togliatti nel discorso di chiusura dei lavori ebbe a dire: «Abbiamo visto con commozione che l’appello lanciato per aiutare i bimbi del Mezzogiorno ha portato ad una gara fra i compagni e le organizzazioni allo scopo di dimostrare a queste vittime innocenti di una politica di tirannide, di violenza e di sventura, che intorno a loro si è raccolta la parte migliore del popolo italiano». Qualche giorno dopo sull’Unità apparve un articolo di Pietro Ingrao intitolato “Dormitorio Primavalle” che iniziava così: «Quando sono arrivato al giornale, mi sono lavato le mani, ho scosso il cappotto e mi sono a lungo grattato la schiena e la testa… A casa ho una bambina di sette mesi, rotonda come una pesca… Non voglio portare alla mia bambina le piaghe, la febbre, la tosse, la tristezza dei bambini del dormitorio di Primavalle… Si dividono in due gruppi: quelli che vivranno perché hanno vinto e superato le malattie: vi chiedono la cicca della sigaretta, tengono la mano in saccoccia ed il berretto drizzato spavaldamente: sono candidati al mestiere dello “sciuscià”; capitano al dormitorio la sera; non sanno di padre e di madre; sono la riserva e la speranza dell’esercito della delinquenza, delle bande di trafficanti, dei mobilitati per tutti gli usi. Di contro loro, sta la schiera dei patiti e dei malati: vivono attaccati al seno delle madri fino ad una età incredibile, pompano nei polmoni l’aria fradicia del dormitorio, dei gabinetti, del loro piscio: ti guardano nell’immobilità e nel silenzio… A molte miglia da Primavalle, in provincia di Modena, si sta meglio…». 40 bambini del quartiere romano partiranno per 4 mesi, insieme a tanti altri. La conclusione di Ingrao: «Che 300 privati cittadini… aprano spontaneamente la loro casa a bambini sconosciuti… questo non era mai accaduto in Italia».

Così il 19 gennaio 1946 si avviò da Roma Termini il primo treno della felicità con a bordo “pischelli” delle periferie di Roma, dal Quarticciolo a Torpignattara, da Nettuno. Un mese dopo toccò a 3500 ragazzini di Cassino e della Ciociaria. A Termini c’erano dirigenti comunisti e dell’Udi ma anche monsignor Cabanes, cappellano superiore della Croce Rossa Italiana. Perché le crocerossine agli inizi diedero una mano e tra di loro c’erano signore dell’aristocrazia. La Mafai racconta in Pasta Nera, un film documentario di Alessandro Piva (lo stesso autore di Santa subito, che ha vinto il premio del pubblico alla recente Festa del Cinema di Roma), presentato e premiato a Venezia nel 2011, della freddezza e dell’imbarazzo delle “compagne” verso queste donne che venivano da altri ambienti, tutte carine e a modo nelle loro eleganti divise, «all’inizio ci trattammo con sospetto».

Il clima di collaborazione di partiti e organizzazioni di diversa ispirazione durò poco. La rottura tra le forze antifasciste già nel gennaio del 1947 con la crisi e la formazione del terzo governo De Gasperi, la successiva crisi di maggio e la formazione di un nuovo governo con l’estromissione di socialisti e comunisti innalzò un muro tra le varie organizzazioni. La Dc, del resto, aveva avviato da tempo la sua campagna di aiuti appoggiandosi agli alleati, agli Stati Uniti innanzitutto, attraverso anche le adozioni a distanza. E dal 1948 in poi l’assistenza all’infanzia diventò uno dei terreni di scontro tra Dc e Pci. I governi democristiani puntavano ad affidare ad enti privati o ad istituti religiosi, alla Pontificia Opera di Assistenza che forniva mezzi e soldi, alle parrocchie quelle strutture e quei beni pubblici destinati ad accudire i giovani. Negando fondi e appoggi alle organizzazioni, oggi si sarebbero dette di volontariato, che si preoccupavano e lavoravano per i bambini. Il ministro dell’Interno Mario Scelba si distinse non solo per l’azione repressiva ma anche per trascurare e censurare qualsiasi richiesta venisse dalle sinistre. Che chiedeva, ad esempio con interrogazioni parlamentari, che cosa si volesse fare delle colonie estive. Scelba replicò sarcastico ai deputati: «Risponderò a settembre», vale a dire quando l’estate era già finita. E il Vaticano non stava a guardare. Pio XII rivolse, tra i tanti, un discorso alle donne cattoliche (il CIF era l’Udi cattolica) in cui le invita a partecipare alla vita pubblica «…per organizzare tutti i momenti che richiedono la dignità della donna, la protezione ed educazione del bambino, la fanciullezza moralmente abbandonata… non lasciando il monopolio dell’organizzazione a quelle donne che si fanno promotrici della rovina del focolare domestico».

I “treni della felicità” portarono anche altri bambini, altri dolori e ferite. I figli dei minatori sardi che tra il ’48 e il ’49 combatterono per oltre due mesi per evitare la chiusura dei pozzi minerari. Un centinaio di bambini furono mandati tra Torino e città dell’Emilia. Li chiamavano “i bimbi di Gramsci”, i soldi erano pochi e Nadia Spano andò da Einaudi al Quirinale a chiedere la somma che serviva per acquistare di biglietti di III classe della Tirrenia e delle Ferrovie. Nel viaggio di ritorno si verificò uno dei pochi incidenti: un bambino cadde da un treno e morì nei pressi della stazione di Orte. Nella stessa Emilia, era il 1950, si mobilitarono gli operai delle Officine Reggiane per evitare la chiusura: i loro ragazzi furono accompagnati in località marine della riviera romagnola. Nello stesso anno, a marzo, scoppiò una rivolta a San Severo in provincia di Foggia. Nel corso di uno sciopero non autorizzato, i braccianti, esasperati da continue provocazioni e intimidazioni, si lanciarono contro la polizia che rispose duramente, intervenne anche l’esercito che occupò il paese. Si contarono un morto e numerosi feriti, 180 persone vennero arrestate e portate nel carcere di Lucera, in molti casi erano marito e moglie. Pesante il capo di accusa: insurrezione armata contro i poteri dello Stato. Uscirono dal carcere solo due anni dopo, il processo li mandò assolti. Quelle famiglie vennero smembrate, molti piccoli, una settantina, vennero affidati a famiglie del Centro (Marche) e del Nord. Anche questi bambini come gli altri avevano paura. Giovanni Rinaldi, autore di numerose ricerche sui braccianti e sulle loro lotte, originario di Cerignola, ha scritto un libro dieci anni fa edito da Ediesse che ha per titolo proprio I treni della felicità, che costituisce la base del documentario di Piva, Pasta Nera. Il libro come il film si muovono dai tragici fatti di San Severo fino agli altri casi di ospitalità. Rinaldi e Piva hanno raccolto la voce dei superstiti di quelle storie. Molti non sono più tornati nei paesi dove sono nati, altri hanno continuato ad avere rapporti sia pure saltuari con le “mamme” e i “papà” di allora (tra di essi l’attrice Angela Pagano e la sorella Marina), altri ancora hanno sciolto ogni legame. Nei racconti di queste persone ormai anziane il ricordo ripetuto è quell’angoscia, quel terrore degli orchi comunisti. A Santa Maria in Fabriago, frazione di Lugo, vicino Ravenna, arrivò Franco, veniva da Ceprano. Ricorda Giovanni, colui che lo accolse: «Franco dormiva nella camera grande, dove si dormiva anche in due o tre, e lui stava nella camera vicino a me. La notte non riusciva a prendere sonno: “Franco e dormi, va!”, dicevo. “Non ho sonno, non ho sonno!”, rispondeva lui. Il giorno dopo si svegliava e cominciava a guardare avanti e indietro da tutte le parti; “Che cosa cerchi?”. “Niente, niente, niente”, rispondeva. E allora, giorni dopo, quando cominciò a mangiare le tagliatelle, disse: “C’avevano detto che qua c’erano i comunisti che mangiavano i bambini”. “È per quello, è per quello che avevi paura?”, chiedevo. “Sì stavo attento, perché queste voci che circolavano mi terrorizzavano”. Un ragazzino di 8-9 anni a quei tempi poteva anche crederci».

Avevano cominciato i nazisti e i fascisti di Salò a martellare l’Italia sui comunisti cannibali. Durante gli sbarchi alleati, sfruttando la eco di episodi di antropofagia verificatisi nelle grandi carestie della Russia sovietica negli anni Venti e Trenta. La copertina della Domenica del Corriere del 9 gennaio 1944 illustrata da Walter Molino mostrava soldati anglo-americani sbarcati in Sicilia che “deportano” bambini verso la Russia (la si trova nel libro di Stefano Pivato I comunisti mangiano i bambini, Storia di una leggenda, edito dal Mulino). La Dc, la destra soprattutto attraverso la rivista Candido di Guareschi, e la Chiesa continuarono nella campagna sui comunisti mangiatori. Che accompagnò fino alla fine l’esperienza dei treni (ma Berlusconi riprese lo slogan ancora nel 2000 e anche dopo).

Nel 1951 la tragica alluvione del Polesine mise in moto di nuovo la macchina organizzativa del Pci e, innanzitutto, dell’Udi. Questa volta i bambini andarono dal Nord, dal Veneto, verso il Centro-Sud. I cattolici, ricorda Pivato, denunciarono “l’incetta” dei bambini da parte della sinistra, accusando i “bolscevichi” di speculare sulle sciagure e di aizzare le popolazioni colpite. La sinistra da un lato accusò di inettitudine il governo nei soccorsi e dall’altro esaltò il governo sovietico che mandava agli alluvionati mezzi agricoli e sementi attraverso le cooperative. L’Unità scrisse che sacerdoti ed esponenti cattolici facevano pressioni per non affidare i ragazzi all’Udi. Maria Antonietta Maciocchi annotò su Noi donne, periodico dell’associazione: «L’opera di provocazione vergognosa è cominciata: i preti, i marescialli, andavano fra i profughi e dicevano loro: “Non andate con i comunisti, vi abbandoneranno nella strada”. “Se andate con loro, finirete nelle case dei senza Dio. Dio vi ha dato questa sciagura, altre se ne aggiungeranno se li seguite”». Sembrano polemiche dei giorni nostri. Si arrivò addirittura a fermare «due autocorriere allestite dall’Udi con a bordo 137 bambini e 20 mamme, partite da Cavarzere e dirette a Roma, bloccate dalle autorità di polizia. I viaggiatori vengono chiusi nell’ospedale degli Alberoni a Venezia e affidati alla Pontificia commissione di assistenza».

Successe anche di peggio in Calabria, nell’ottobre dello stesso anno, circa un mese prima del Polesine, e sempre in seguito a pesanti piogge. A Reggio Calabria la Camera del Lavoro riuscì a radunare circa 400 bambini rimasti senza casa. Venivano da Plotì, Mammola, Polistena, Taurianova e da Reggio. Le chiese dei paesi suonavano campane a morto per la partenza di piccoli, la polizia scelbiana bloccò i pullman, molti bambini vennero portati in istituti religiosi, i giornali vicino al governo (cioè quasi tutti) parlarono dell’ospitalità offerta ai piccoli calabresi come di un’azione criminosa: «Le famiglie ospitanti abuserebbero in maniera turpe dell’innocenza dei fanciulli». All’opposto, da sinistra si replicava con accuse di pedofilia al clero, cosa che indignò non poco il mondo cattolico. Si parlò di «bambini rapiti».  Dovette intervenire la Procura della Repubblica che ordinò alla polizia di restituire i bambini. Molti di essi furono accolti a Napoli.

Nel 1950 questi erano i numeri della nostra infanzia: 3 milioni erano senza casa, 700.000 non frequentavano la scuola dell’obbligo, 500.000 erano orfani senza assistenza, 15.000 i piccoli mutilati, 30.000 i minori deferiti ai tribunali addetti, 10.000 erano rinchiusi in istituti di rieducazione.

I “treni della felicità” cercarono di alleggerire questo quadro drammatico. Tra errori e tanta propaganda. Molta parte d’Italia però si mostrò generosa e solidale, unita e fiduciosa del futuro. Forse, come suggeriva Luciana Viviani, parlamentare e protagonista del Comitato napoletano: «Questo è un Paese che ogni tanto dovrebbe ricordarsi le cose buone che ha fatto».

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