Danilo Bonora
A proposito di “Diligenza e voluttà”

Il Professor Contini

Garzanti ripubblica una sapida conversazione di Gianfranco Contini con Ludovica Ripa di Meana. Un ritratto a tutto campo del grande critico,«Positivista senza positivismo, cioè senza metafisica e, al limite del possibile, senza mitologia»

Gianfranco Contini rammentava che a passeggio con Ungaretti gli sentì dire come la guerra fosse stata per lui soprattutto «caffè toscani aspirina e bismuto». Al suggerimento del giovane amico – aspirina e bismuto attendevano ancora «d’essere riscattati poeticamente» – Ungaretti replicò che non si poteva fare poesia con l”aspirina e il bismuto, «perché fra venticinqu’anni non sapranno neanche che cos’erano»: pronostico azzeccato solo per metà. È passato più di un quarto di secolo dalla prima stampa della succosa conversazione tra Gianfranco Contini e Ludovica Ripa di Meana (Diligenza e voluttà, or ora ripubblicato da Garzanti) e c”è da chiedersi se il pubblico – nell”epoca dei selfie poi – per quanto «disponibile a lasciarsi invadere dall”animo altrui», sia interessato a un genere da noi poco fortunato, quello delle raccolte di detti memorabili, confidenze, Tischreden che non riguardano le star dei media e dello sport.

Figurarsi la culta autobiografia di un raffinato filologo classe 1912 con un debole per gli happy few e il «sibaritismo intellettuale», esponente di un’epoca inimitabile e tramontata, gremita di studiosi e artisti leggendari, tra i quali, molto cari al critico, Longhi, Benveniste, Croce, Spitzer, Gadda, Montale, Curtius, Jakobson, Pasolini. «In sostanza la mia unica scoperta», ricorderà Contini nel 1980, tributaria delle Poesie a Casarsa stampate artigianalmente nel “42 dal bolognese Landi e arrivate in modo picaresco nel pieno della bufera alla sua cattedra di Friburgo con «l”odore irrefutabile della poesia». Fu l”avvio di una strana amicizia di rari incontri de visu, al cui esordio si assistette all”incredibile dispiegamento di timidezza di un allievo di Roberto Longhi, il «primo e forse solo grand”uomo» che il friulano avesse incontrato: ragionando di un intellettuale di casa nella società letteraria della capitale, è una sentenza inesorabile per ciò che depenna.

Il titolo allude al Fleiss dell’Iperione di Hölderlin, cioè al senso del dovere – una rarità nel nostro spigliato paese – e al Lust di Spitzer, l”ancor più inusitato diletto dell”avventura mentale, stella polare del buon lettore, docile preda di un azzardo (il risultato del leggere è imprevedibile, altrimenti «non varrebbe la pena di correre il gioco»), rispettoso delle suggestioni che vengono dalla scrittura, devoto però alla oggettività della realtà testuale, come molti altri credono alla realtà tout court senza chiedersi se sia suscettibile di proiezioni gnoseologiche.

L’intervistatrice temeva che la chiacchierata avesse assunto l’aspetto di un “interrogatorio” o di una “inquisizione”, ma in realtà Ripa di Meana si era messa alla giusta distanza, in modo da osservare meglio un peculiare fenotipo di critico, scrittore e filologo dotato, notò Maria Corti, di un’originalità «persino conturbante». Ciò ha consentito di dare alla conversazione un tono affabile e divagatorio, grazie al quale toccare gli argomenti più vari: Beatles (non pervenuti), TV, Stravinskij, traduzione della poesia, teosofia di Rosmini, Longhi («un mimo pungente»), salute della lingua italiana, Croce e Mattioli, dilagante inglese basic, ranking internazionale della nostra filologia, Dante, repubblica partigiana della Val d’Ossola, relazioni tra ferrovia ed ecdotica, ricordi di tanti amici.

Il filo che lega questa rapsodia è naturalmente la vita del protagonista: si comincia con i primi passi nella Domodossola del padre ferroviere (un “santo laico”) e degli incanti familiari («il bambino più felice del mondo»), ma anche delle angosce di chi aveva lo stesso nome di un fratellino morto prima della sua nascita e del panico a sette anni per il ritardo del treno che riportava a casa, con l’amatissimo papà, l’ordine e il senso delle cose: «Una disperazione così intensa, in sostanza, non I’ho mai più provata»; «nascere con nervi di questa tempra», confessò a Emilio Cecchi, «ha veramente la sua parte di calamità». Dinanzi al mistero del mondo – ha osservato Capati – Contini poteva negarlo o identificarsi con esso, essere un mistico o un illuminista in ritardo. Scelse invece la via dell’interpretazione, della riconduzione al familiare di logogrifi e codici, del ridimensionamento dell’allarme nell’oggettività dell’analisi. «Positivista senza positivismo – diceva di sé – cioè senza metafisica e, al limite del possibile, senza mitologia», procedeva sulle orme del Croce del Contributo alla critica di me stesso, nerboruto campione del valore liberatorio del pensiero rispetto a un’insopportabile angoscia, a una disperazione da mediare in calma col pensiero, l’opera, il metodo, che sono “ricerca di salute” e hanno “una portata religiosa”.

Non è un caso che un ragazzo di provincia, «all’anagrafe, pensi un poco, filologo: filologo di neolatino», così ironicamente in una lettera a Cecchi, che passava più di una sera in pensieri cupissimi, diagnosticandosi una disforia di «accessi, entusiasmi, velleità, bulimie, e poi cadute, e decadenze», abbia con mosse magistrali afferrato e magnificamente isolato la quidditas nell’opera di geniali drop out come Ungaretti, Gadda, Montale, Claudel, Mann. E non è un caso che il Maestro delle curve di livello del testo, percepite molto intensamente («al limite del penoso»), riprodotte da una prosa acuminata, eccentrica ma precisa come un portolano, sia stato così fraterno nell’intuire il bon usage des maladies pascaliano quando un Pasolini insolitamente malaticcio e casalingo si era assorto a disegnare ritratti di papà Longhi, riesumati non dalla memoria ma dalla copertina dell’antologia longhiana curata da Contini nei Meridiani: niente avrebbe potuto commuoverlo quanto l’essere stato «coinvolto in questa mediazione». Il libro non tace ovviamente dei succitati articoli dell”enfant prodige sui contemporanei, raccolti negli Esercizî di lettura del ‘39, scritti a un’età in cui oggi abbiamo ancora problemi di ortografia (a fianco o affianco?), e talmente esatti da indurre uno strabiliato Montale a confidare alla sua musa americana Irma Brandeis che «It is not easy to find another Gianfranco Contini; he is a sort of genius in his way». Tempi già tanto remoti nel 1988 da dolersi che la lingua degli italiani si fosse fatta pressoché irrazionale e, in un certo senso, “non trascrivibile”; “fantasiosa” ma inadatta a “comunicare delle verità” e molto confacente agli “empiti collettivi”, magari “sotto la linea”.

I due interlocutori discorrono poi del furor paedagogicus (soprattutto nei seminari) a Friburgo, a Firenze, alla Normale di Pisa, delle storiche edizioni critiche dei Poeti del Duecento e, anni dopo, dell’enigmatico manoscritto del Fiore, “attribuibile” infine a Dante. Affrontano l’argomento della controversa antologia Letteratura dell’Italia unita – per esempio il povero Gattopardo di Tomasi di Lampedusa emarginato ad “opera di intrattenimento”, addirittura “sul piano della bancarella” – e proseguono deplorando l’imbarazzante presente della politica, della società («tutta orientata verso il potere»), della scuola e dell’università, uscite un po’ malconce dal ‘68, dopo il quale, lamentava l’intervistato, danneggiati “in modo infame” dai metodi concorsuali, “dagli intrallazzi, dai giochi di potere”, i giovani promettenti sono stati deferiti a quaresime e quarantene insopportabili, con la burocratizzazione delle comprensibili richieste «dei cosiddetti Sessantottisti, una burocratizzazione in cui i ministeri godono, godono infinitamente…». Avendo questi continuato a sgavazzare, non sembra proprio che siano passati trent’anni nel “paese dei vicereami” (diceva Garboli): dopo i Glorious Thirties, di nuovo infeudato e illuso di riposare sugli allori, attende gli eventi mentre mezzo mondo si è messo a correre come un dannato con la produttività totale dei fattori (in primis l’istruzione) ben puntata verso l’alto.

La riedizione Garzanti può utilmente defluire nel discorso pubblico se si riflette sulla nostalgia spolverata nei numerosi e dotti convegni su Contini degli ultimi vent’anni (surclassati Debenedetti e Longhi), che hanno dissigillato il rimpianto di un’età aurea dove uno specialista di Arnaut Daniel, ignorati i diktat della divulgazione un tanto al chilo, si permetteva il lusso di pubblicare sui principali quotidiani i suoi ardui elzeviri, impervi concentrati di saggi, senza sconti a lettori che dovevano sbrigarsela da soli davanti a parole tipo obiurgazione, coaxante, terebranti, specillato. Estendendo al suo stile ciò che registrò in Longhi, si può supporre che anche Contini volesse causare “soavemente” piccoli traumi, equivalenti a un’intensificazione dell’attenzione conferita. Era una scrittura non di rado “provocata”, reagente all’intrusione di un testimone conturbante nell’assise del preconscio (Freud nell’intervista è definito “un confratello”), intessuta di una metaforica “estratta dai più multivoci campi” (come in Gadda), dalla medicina, dalla procedura penale, dalle scienze dure. Si trattava di una bonifica dello Zuiderzee, che riportava l’anomalo nel recinto della comprensione, non prima però di aver assaporato il tonificante contatto con il rischio del precipizio, che del resto si era andati a cercare, nella Cognizione del dolore, nell’”alpinismo da sesto grado” delle Paginette di Pizzuto, nel dialetto tursitano di Pierro (“quasi un’altra lingua”), nel Galateo ctonio di Zanzotto: “per rompere la trama noiosa dei giorni”, ma verificando che questo break avesse il nulla osta della ragione.

È anche innegabile, com’è stato rilevato, che il suo saggismo erudito e tecnico mise in secondo piano la storia delle idee, degli intellettuali, dei generi letterari, in particolare del romanzo, e che il suo prestigio favorì il gioco degli académiciens iperspecialisti – tifosi ed emuli del loro fuoriclasse così famoso – a spese di un discorso politico e sociale sulla letteratura più accessibile; ma, d’altra parte, dopo la scomparsa di Croce, Contini si trovò a ricoprire senza volerlo una sorta di reggenza, mancando all’appello i candidati che potessero surrogarlo…

E trent’anni dopo? Caduto l’Ancien Régime, lo strutturalismo – rotolato a valle con il suo vocabolario di “eterodiegesi” e “focalizzazioni zero” – si è ridotto a metodo didattico per concorsi scolastici, sono crollate torri e dittature, e la critica è tornata in fretta alla Storia e ai grandi temi civili rilanciati dal global novel. Nel frattempo qui da noi le facoltà di lettere venivano depauperate delle loro discipline più prestigiose e imbottite di garruli corsi afferenti l’area della “comunicazione” e dei servizi; nella scuola si cercava sempre più di tenere gli studenti al riparo dall’alieno non addomesticato, attraverso un curioso training di oblio delle parole del passato e di banalizzazione della “difficile” lingua letteraria. Non sia mai che la gente grazie a un po’ di libri si trovi costretta a scoprire qualcosa di nuovo su di sé, subodorando una linea autobiografica in conflitto con i propri confirmation bias, insomma un’insidiosa e rimescolante apertura di prospettiva: meglio stare fermi a guardarsi su Instagram tels quels.

Rievocando l’”umiltà” del grande classicista Giorgio Pasquali – il suo “festivo saluto” alle scoperte degli allievi nei seminari – Contini precisava di considerarla ostica da professare (Pasquali “era buono, non giusto”), perché «accettare e annotare le correzioni e i suggerimenti altrui, come ho sempre fatto con pignoleria, l’ho sempre considerato un dovere, un obbligo giuridico». Nel fatidico ‘68 – durante le polemiche per la Letteratura dell’Italia unita – disse al giornalista Andrea Barbato che in fondo non si doveva dare troppa importanza all’università perché «siamo tutti degli autodidatti!» e nella ricerca accademica spesso «si rifriggono dei cavoli stracotti»; per dirla tutta, che bisognava piantarla di «castigare l’invenzione sia del docente che del discente». Ben detto: un sapido assaggio dell’acrobatica dialettica di diligenza e voluttà che lo vide più volte vincitore. Era spericolato, il professor Contini.

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