Alberto Fraccacreta
A proposito di "Nel nome"

Nel nome di Maria

Alessandro Zaccuri insegue il mito fondativo di Maria, cercando di mettere in fila tutte le suggestioni e le influenze che la Madre di Gesù ha avuto non solo sulla cultura, ma anche sui comportamenti sociali: tra vita, filosofia e religione

«Perché Maria è un nome e tutto di Maria è nel nome». Forse basta questa frase a spiegare la singolare, ma straordinaria ricerca — dal sapore nitidamente petrarchesco — di Alessandro Zaccuri nel suo nuovo romanzo-inchiesta-mémoire: Nel nome (NN Editore, pagine 168, euro 14) è uno saggio nell’accezione moderna del termine, ossia un oggetto letterario nel quale confluiscono ricordi personali, lunghi segmenti narrativi, ekphrasis, pagine di critica e addirittura di filologia testuale, raccordi etimologici, divagazioni middlebrow, scorci lirici: insomma, è un microcosmo, un prisma intricato, il genere che inghiotte voracemente e ricrea di riflesso tutti gli altri generi. Nel nome ha una sua collocazione ben precisa nella collana CroceVia dell’editore milanese, che Zaccuri ha ideato e accompagnato, e che ha visto già in stampa testi di Laura Pariani, Andrea Tarabbia e Gian Luca Favetto. Leitmotiv della serie è il significato di parole fondamentali nella nostra cultura e nella nostra storia. Maria è senz’altro una di queste.

Ma di quale Maria si tratta? La quête del nome, mandel’stamianamente «protratto suono meraviglioso», si radicalizza non appena diviene fatto privato: certo Maria del cartellone pubblicitario, Maria di via Sardegna etc.: ma soprattutto Maria, il secondo nome della madre Anna, ricordata dallo scrittore (all’epoca studente universitario) negli anni della malattia. Ecco che allora quella che pareva una rassegna si trasforma in un viaggio tortuoso, fatto di tracce e di indizi acutamente raccolti nella lunga, dolorosa scoperta della precarietà dei legami ― e in una freschezza di accenti che sa di Bildungroman ―, indizi che inducono Zaccuri a interrogarsi sull’origine del nome, sull’alchimia dei legami sillabici, sull’insistenza di alcune scene evangeliche e, poi, artistiche, quasi che tutto questo potesse spiegare e ricreare come in un puzzle più ordinato dello specchio deformante della vita il travaglio e il successivo distacco. West Side Story, Romeo e Giulietta e soprattutto Maria di Màgdala: «Già allora il nome era ovunque. Non si staccava dal corpo di mia madre».

Il punto di svolta avviene, forse, nell’analisi di due celebri passi evangelici, l’Annunciazione e la Presentazione di Gesù al Tempio. La tradizione apocrifa del Protovangelo di Giacomo e l’Annunciazione recanatese di Lorenzo Lotto testimoniano il turbamento di Maria ― «tu che sei più grande di noi», ricorda Leopardi ― dinanzi al sopraggiungere del messo celeste. Decisivo è, però, un verbo tradotto da Girolamo nella Vulgata, in relazione alla terribile profezia di Simeone: pertransiet. Anche a te una spada trafiggerà l’anima. La ricerca del nome passa dentro la ruvida sonorità del verbo «che di nuovo richiama l’attraversamento, come se Maria fosse sempre destinata a stare qui e non qui, tra l’erranza della fuga e la trasparenza dello sguardo». Occhi di acquamarina investiti di un fiat che entra in analogia con il pertransire: «Nel verbo latino questa connotazione è molto più forte rispetto all’italiano “trafiggere”, nel cui composto è presente un solo prefisso, trans-, rispetto ai due, per- e ancora trans-, del progenitore latino. A trafiggere è più un pugnale che una spada, un ferro affilato che va dritto al cuore. Ma quel pertransiet indica la fatica del braccio che affonda il colpo, scendendo a cercare nelle viscere il posto in cui l’anima si nasconde». È nel pertransire che Zaccuri scopre lo spavento e il «segno che la lama», la lama del nemico, «ha fatto il suo lavoro».

Eppure, proprio nello scoglio più difficile da superare, le Marie ora si moltiplicano: ancora Maria di Màgdala e i sette demoni, Maria di Betania, l’emoroissa, una signora completamente fuori di sé su un treno esterrefatto, la figlia di Giàrio, poi Maria di Clèopa e Maria Salome: racconto e vita si intrecciano fino alla perplessa constatazione che ― come ha spiegato Henry James ― qualcosa (un elemento ricorrente, «un filo che torna a riannodarsi») in queste scene riappare sempre.

E allora: «Il nome di Maria, il nome di Maria. Che cosa sto cercando veramente? Perché questo viaggio a ritroso nei bagliori del Medioevo?». Le immagini di Lippo di Benivieni e di Giotto anche con le loro incrinature, immerse in un aleggiante latino imperfetto, hanno il potere di risanare le escoriazioni. Persino la curiosità evangelica sul transito ― non chiaro ― delle tante Marie a far da corteo a Maria. Come nel Franco cacciatore di Caproni, la caccia alla lingua, al nome in fuga, si blocca nell’ossidiana, nella calcificazione dell’incomprensibile: morte che però è già «promessa di un’altra vita»; il bozzolo del nome ha tirato fuori, per mezzo di Fabio, amico fraterno di Zaccuri e dedicatario dell’opera, il suono tangibile di questa promessa, un altro, più rigoglioso nome: la Cilena. Dalla finestra della cappella di Notre-Dame du Haut a Ronchamp, disegnata da Le Corbusier, la folgorazione: «Non è Maria che hai provato a raccontare, ma il mondo come riesci a vederlo, a volte, attraverso di lei. È stata un’avventura dello sguardo e della memoria. Non hai inventato, non hai immaginato: hai reso testimonianza. Ti sei messo, anche in questo, alla scuola di Maria». Lama e ferita, balsamo e sutura, dice ancora Zaccuri: le lettere tracciate da Le Corbusier. Marie.

P.S. Una parte di questo libro, con il titolo La cilena, era apparsa proprio su Succedeoggi nel giugno del 2013.

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