Filippo Bozzi
Un genere e un codice da preservare

Melodramma 2.0?

Ha ancora senso scrivere un melodramma, oggi? La domanda sorge spontanea dopo aver visto “Noi, due, quattro…” di Riccardo Panfili e “Turandot.com“ di Raffaele Sargenti. L'opera lirica ha un codice che basta a se stesso: nasce moderna e non ha bisogno di aggiornamenti

Chi ha bazzicato Firenze e dintorni avrà sentito un vecchio detto, che ora si usa sempre meno e forse presto sparirà: ”Che c’entra il culo con le Quarant’ore?”. Le Quarant’ore sono una preghiera del periodo pasquale, in cui si adora il Santissimo per tutto il tempo che intercorre tra la morte e la Risurrezione; e molti anni fa, in tempi di devozione più fervida, le chiese dovevano essere piuttosto affollate in tale occasione. Tanto che, approfittando dell’oscurità e della calca, pare che una volta un tale avesse buttato la mano dove non doveva, attratto da rotondità generose. La donna oggetto di attenzione si era subito ribellata: “O giovanotto! Che fa?”, “Signora, son le Quarant’ore” rispondeva lui, non sapendo come giustificarsi; e lei prontamente “E che c’entra… ?”.

E così popolarmente si dice quando c’è qualcosa che non quadra, come un gesto profano nel tempio sacro, un’esuberanza fisica in tempo d’astinenza. La stessa sensazione di estraneità, di incongruenza ho avvertito assistendo di recente alla prima esecuzione dell’opera lirica contemporanea, Noi, due, quattro… di Riccardo Panfili, con libretto di Elisa Fuksas, andata in scena al Teatro del Maggio Musicale Fiorentino.

Chiedo scusa se torno nuovamente alle natiche e al termine più usato per indicarle, ma è da lì che parte la sensazione e il ragionamento: lì è la punta, sotto c’è un iceberg che cercherò in parte di esplorare. In una delle primissime batture del lavoro, la protagonista, mezzosoprano, dice appunto al marito tenore «E il mio culo? Ti piace?». I due sono a letto e stanno giocando; inizia un gioco erotico pericoloso in cui le lusinghe sessuali del web rischiano di far saltare la coppia. Già l’idea non è originalissima, ma non è di questo che voglio parlare. Voglio parlare della possibilità di scrivere un’Opera lirica oggi, e in particolare della possibilità di scrivere per il canto, che dell’Opera è il mezzo espressivo fondamentale.

Immaginiamo un bravo mezzosoprano dalla voce educata, che deve cantare la suddetta battuta su una tessitura non acutissima, ma di un certo impegno; la partitura non chiede un gridolino, un sussurro, un suono soffiato, un semi parlato: chiede note tenute, sul registro medio. Aggiungiamo il fatto che la u non è ideale per l’emissione, perché tende a stringere la gola, per cui il cantante deve escogitare una manovra tecnica per aprire la cavità e proiettare il suono nel modo migliore, aggiustando un po’ la vocale. Ne esce qualcosa che assomiglia a “E il mio cooooolo? Ti piace?” perché la nota da tenere non è breve. È un suono stilizzato, nobilitato da una lunga tradizione, un suono che non esiste nel parlato corrente, come accade normalmente nel canto lirico.

Quando la zingara Azucena, madre del Trovatore canta “No, soffrirlo non poss’io / il tuo sangue è sangue mio / Ogni stilla che ne versi / tu la spremi dal mio cor!” udiamo dal mezzosoprano suoni di questo tipo, che sono omogenei allo stile musicale, allo stile del testo, all’intenzione espressiva. I versi non sono memorabili dal punto di vista poetico, ma aspirano alla stessa nobiltà alla quale tende la disciplina vocale: la dignità del canto ci pare del tutto adeguata al suo contenuto, c’è un’identità che nell’opera andata in scena a Firenze è completamente persa.

Qualcosa di simile succede, forse in maniera appena meno caricaturale, in altra battuta dello stesso dialogo: “E le mie cosce?” (sempre sottinteso, ti piacciono?). Chi è un po’ pratico di canto lirico saprà che le doppie – come il fonema sc in italiano – interrompono il flusso sonoro e possono anche intralciare il fraseggio, imponendo un minimo rallentamento nel ritmo, quindi in teatro si tende a spianarle, un po’ per vizio, un po’ per necessità; ne risulta quindi una pronuncia tipo “E le mie coce?” con la c leggermente aspirata, una pronuncia affettata, con birignao melodrammatico, che in una frase pacificamente melodrammatica come ad esempio “Sei tu dal ciel disceso o in ciel son io con te?” non ci dà alcun fastidio e forse nemmeno avvertiamo; in una donna del 21° secolo che provoca il suo partner nuda sul letto, parlando di cosce e glutei con lo smartphone in mano, una pronuncia del genere fa avvertire un’incoerenza, un’estraneità. Come una manata sul didietro alle Quarant’ore.

Non intendo denunciare una profanazione; nell’arte c’è spazio per tutto. Nell’Opera, poi, la seduzione e il sesso sono temi trattati in abbondanza da sempre. Il punto è di carattere estetico: la coerenza stilistica tra un canto per sua natura nobile, solenne e un testo che, nell’essere giustamente contemporaneo, decide di eludere certi stilemi, in altre parole: la capacità di trovare un’adeguata forma musicale e canora a un libretto in prosa che usa il registro del parlato di oggi. Tra l’altro il divorzio tra musica e testo, tra parola e canto prosegue anche nella disposizione degli accenti, sempre indifferente alla prosodia.

Nella grande Opera lirica, quella che resta in repertorio, c’è una modernità data dall’essere perfettamente contemporanea a se stessa; il Figaro o il Don Giovanni di Mozart nascono moderni, sono figli di un’arte viva in cui i versi e la musica hanno lo stile del loro tempo e il canto li esprime con naturalezza, e così via, fino al Novecento. Poi c’è una cesura. Accostarsi al teatro musicale oggi è sicuramente molto più problematico: bisogna scegliere se “tornare al melodramma”, adottando in certa misura forme cristallizzate e accettando una gabbia formale data proprio dall’estetica del canto melodrammatico, o creare uno spettacolo completamente nuovo; tutte e due le strade sono aperte, ma la prima espone a rischi maggiori; il confine è sottile e cadere o no nell’anacronismo, nella contraddizione stridente è solo una questione di gusto e di misura.

Lo capisce bene e sul confine si muove felicemente Raffaele Sargenti nella sua Turandot.com della quale è autore di musica e libretto – il che è già buona garanzia di coerenza. Si tratta di un’operina andata in scena in prima assoluta al Festival delle Nazioni quest’estate; Turandot.com, ispirandosi al capolavoro di Puccini e citandolo qua e là, alleggerisce la vicenda con molta autoironia e la trasporta nel mondo degli adolescenti, in un futuro in cui tutto accade nel virtuale, tra schermi giganti e dispositivi portatili nel continuo bombardamento di impulsi sonori e visivi di una multimedialità esasperata.

Nell’entusiasmo dei nativi digitali di quarta o quinta generazione si compie la riscossa di Liù, giovanissima blogger, che con un trucco, una falsa prova degli enigmi, riesce ad attrarre a sé Calaf, quattordicenne campione di giochi online, aggirando l’arcigna Turandot, che non è una principessa in carne e ossa ma un potentissimo server, arbitro dei destini informatici planetari. L’autore usa un ensemble classico, per il quale scrive una pregevole partitura dal linguaggio contemporaneo in cui vari stili e suggestioni di contaminano; a questa affianca l’elettronica che introduce i richiami del mondo informatico: avvisi sonori, jingle, musiche da videogioco, rumore di fondo, voci robotiche funzionali allo svolgimento della vicenda.

Molto interessante è l’approccio al canto: intanto una parte del testo è semplicemente recitata, poi c’è un recitativo frammentato, quasi balbettato a suggerire la concitazione stressante di chi deve rispondere simultaneamente a mille richieste,  zeppo di termini informatici e neologismi strambi; poi nelle oasi in cui la melodia si distende in piccoli ariosi, lo stile del testo si eleva verso una forma più poetica e lo stile musicale è semplice e lineare, con forme che strizzano l’occhio al musical; l’impegno vocale è moderato e i protagonisti, che hanno una formazione lirica, sono tuttavia amplificati, il che li esenta dal dover gonfiare i polmoni e le gote e rende la loro espressione meno enfatica, a metà strada tra il canto lirico d’alta scuola e il canto spontaneo. Un’ulteriore semplificazione tocca alla scrittura dedicata al coro dei bambini, che impersonano la folla dei followers e assumono l’importanza di un ulteriore personaggio, sempre presente in scena.

Ecco che con pretese forse più limitate e un budget estremamente contenuto, si può confezionare uno spettacolo di teatro musicale contemporaneo, in cui lo stile è eterogeneo ma con una forte unità, il testo è divertente e arguto, la musica di qualità, il canto trova forme adeguate e accattivanti; ciò che suona iperbolico o surreale è effettivamente pensato per apparire buffo e c’è persino un po’ di pathos, la suspence del gioco e qualche momento romantico.

Apparentemente siamo su due piani diversi: un’operina per bambini che debutta in un festival di provincia e un’opera contemporanea che esordisce in un teatro blasonato. All’atto pratico non si può dare niente per scontato. Può darsi che un lavoro che non si prende troppo sul serio sia vitale e comunicativo e abbia più frecce al suo arco – e possibilità di circolare – di uno che, da premesse di robusta levatura intellettuale, con propositi di analisi socio-antropologica della società di oggi, illustrati nel programma di sala, rimanga fermo alle intenzioni, non riuscendo a vivere come opera d’arte, nella fattispecie Opera lirica.

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