Roberto Mussapi
Every beat of my heart

La quiete di Orazio

Il “Carpe diem” del grande poeta latino suggerisce di vivere gli incanti dell’attimo. E così, la descrizione di un suo viaggio da Roma a Brindisi è un diario puntuale di piccoli eventi narrati con la dolcezza e la lucida serenità che gli sono propri

Ben diverso da quelli di Melville, verso la Balena Bianca, o di Stevenson, dell’Isola del tesoro e dei suoi Mari del Sud, il viaggio di Orazio reso celebre in una delle sue più belle Satire (il genere poietico in cui eccelle e di cui sarà maestro per sempre). E Stevenson, sia chiaro, amava e recitava a memoria il poeta romano. Non per i suoi viaggi senza brivido, ma per la dolce e lucida serenità della sua poesia.
È un viaggio compiuto da Roma a Brindisi, questo di Orazio con il protettore Mecenate e alcuni amici. Un viaggio certo non sulla scia di Ulisse, o degli Argonauti. Orazio è il poeta che cerca la quiete. E vive gli incanti dell’attimo: qui, ora.
Così il suo “Carpe diem”: “Prendi, afferra il giorno”, che significa “Cogli l’attimo”. L’attimo fuggente. Significa “non perdere un istante di quello che accade, godi ogni evento anche minimo, prendi ciò che sfugge e svanisce”.

 

Da qui filiamo dritti a Benevento,

dove l’oste zelante per poco non si bruciò

girando sul fuoco i suoi magri tordi:

divampato l’incendio,

la fiamma guizzando per la vecchia cucina

minacciava di lambire il soffitto.

Avresti dovuto vedere

i clienti affamati e i servi impauriti

che cercavano di mettere in salvo i tordi

e tutti insieme di spegnere il fuoco.

A quel punto cominciano a mostrarsi

i monti a me ben noti dell’Apulia,

che sono bruciati dallo scirocco

a che mai noi avremmo valicati,

se non ci avesse ospitato un casale

vicino a Trevico e tutto pieno di fumo

da farci lacrimare, perché il focolare

bruciava ramaglie umide e foglie.

Lì sono tanto sciocco da aspettare

sino a mezzanotte una ragazza bugiarda;

poi il sonno mi coglie assorto nelle voglie d’amore

e le visioni lascive di un sogno

mi fanno bagnare supino

la tunica da notte e il ventre.

 

E via di corsa in carrozza per ventiquattro miglia,

intendendo far tappa in una cittadina,

che non si può nominare nel verso,

ma che per certi aspetti

è facilissimo indicare:

qui l’acqua, la più vile delle cose,

si compera; in compenso il pane

è senza confronti il migliore,

tanto che i viaggiatori accorti

hanno l’abitudine di farne provvista,

perché a Canosa,

località fondata un tempo dal forte Diomede,

oltre a mancar l’acqua, il pane è di pietra.

Qui Vario sconsolato

prende congedo dagli amici in lacrime.

Giungemmo quindi a Ruvo,

stanchi morti per esserci sorbiti

un tratto interminabile di strada,

reso più difficile dalla pioggia.

Il giorno appresso il tempo migliora, ma non la strada,

almeno sino alle mura della pescosa Bari.

Poi Egnazia, eretta contro il volere delle ninfe,

ci offrì motivo di risa e di scherni,

perché volevano qui farci credere

che l’incenso sulla soglia del tempio

si consumava senza fiamma.

Può pensarlo il giudeo Apella,

io no: gli dei, così ho sentito dire,

passano il loro tempo indifferenti

e, se qualche prodigio si verifica in natura,

non è certo l’ira divina

a precipitarcelo dall’alto dei cieli.

 

Brindisi pone fine al lungo viaggio

e fine alla mia satira.

Orazio

(Da “Il viaggio”, Satire, I, 5, in Orazio, Garzanti, traduzione di Mario Ramous)

 

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