Gianni Cerasuolo
Fa male lo sport

Storia di Tortu

Allenarsi, sfidare il tempo e il vento, credere nelle proprie possibilità e spostare il limite sempre un po' più in là. Insomma: correre. È il destino di Filippo Tortu, stella bianca (italiana) dei 100 metri mondiali di atletica. Ecco la sua storia

Potrebbe essere anche lui un adolescente del Friday for future. Non avesse 21 anni. Ma con quella faccia da bravo ragazzo, i modi svelti ed educati al punto da chiedere scusa prima di dire in tv: «Bisognava tirare fuori le palle», potrebbe sfilare con i giovani che si battono per il pianeta. Lui le ha tirate fuori, quelle cose lì, in un mondo di giganti di colore nero. Non ha vinto medaglie, non è salito su podi. Ma è l’italiano più veloce al mondo, uno che lascia gli altri indietro e gli fa marameo con grazia, senza superbia, qualcosa che quaggiù non vedevamo da oltre trent’anni, legati ancora al ricordo di Pietro Mennea o, scendendo qualche gradino, di Pierfrancesco Pavoni.

Filippo Tortu studia per diventare manager. E studia come rosicchiare decimi e centesimi di secondo ai suoi avversari. L’anno che verrà sarà l’anno olimpico. E lui proverà a scalare un Everest senza montagne, a farsi spazio tra quegli afroamericani pieni di muscoli sospetti che neanche lo consideravano. Aveva cominciato con il basket, poi si è accorto che correva e la palla, mentre lui palleggiava, restava indietro e allora ha deciso che doveva assecondare i desideri. Correre veloce come il vento. Ci vuole coraggio in questo dannato paese a sudare su una pista. Come chi sceglie di fare il musicista. O lo scienziato. Poi succede che qualcosa funziona, che i talenti ci sono, che quella piccola società sportiva lavori bene, che in Brianza non è come nella Terra dei Fuochi, che se hai una cocciuta voglia di riuscire puoi anche arrivare un giorno settimo alla finale del campionati del mondo di atletica leggera. “Pippo” ha il padre (Salvino, sardo di Tempio Pausania, ex sprinter) che gli fa da tecnico, lo allena. Bene, senza stressarlo troppo. Il ragazzo ha subito portato a casa medaglie e complimenti, prima allievo, poi juniores. Un figliolo più bravo di altri piccoli atleti. Qui e in Europa.

Da noi esistono altri come lui ma non si vedono. O si fermano prima, desistono, sfiduciati. La scuola non esiste, le strutture sportive faticano a sopravvivere, spesso rimangono impigliate in debiti e norme assurde, la depressione dell’atletica, il governo e il Coni che si fanno la guerra. E poi, via: il mondo fuori lo stadio è più comodo. Più lusinghevole. Ma spuntano di volta in volta i fuoriclasse, i talenti, i ragazzi che hanno imparato a cantare l’inno, quelli che non si arrendono allo sbando, quelli che si appoggiano a tecnici validi e a club che hanno la vista lunga. Quelli che si sacrificano come Eleonora Giorgi, marciatrice laureata, una fatica bestiale nel caldo e nell’umido indecenti di Doha. Un tempo furono Pellegrini, Magnini… poi Kean, Martinenghi, Enogu, Quadarella, Cecchinato, Musetti. Pochi nomi gettati alla rinfusa ma che rendono l’idea. O Pietro Pellegri, il Messi del Genoa calcio, mandato via a sedici anni: invece di crescerli nelle nostre “cantere” li espelliamo per fare soldi. Come con i cervelli, la fuga dei piedi buoni.

Il giovane Tortu è rimasto. Ha ribaltato la rassegnazione, il vivacchiare, ha superato il piangersi addosso della povera atletica italiana, ha dimostrato che possiamo farcela anche noi. È un ragazzo dei nostri tempi, inconsueto a vedersi. Già, uno che gioca a scopone tra una gara e l’altra con i fisioterapisti e il medico: «Meglio che girarsi i pollici o ascoltare musica». Un po’ all’antica, un po’ juventino, un po’ sgombro da tatuaggi, un po’ fuori moda. Un giovane che guarda i filmati sbiaditi delle Olimpiadi del ’60 a Roma: «Li conosco a memoria, posso anche dirvi i vincitori del concorso di equitazione». Da dove spunta fuori questo qui?

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