Pier Mario Fasanotti
Consigli per gli acquisti

Nabokov e Joyce

La grande letteratura "riletta" da Nabokov (con una predilezione tutta personale per l'“Ulisse”); il disastro ambientale secondo Jonathan Safran Foer e il deserto spagnolo di Sergio del Molino

Grandi romanzi. È un sottile piacere mentale riscoprire la valenza e il significato di magnifiche (e magari controverse) opere letterarie prestando attenzione a quanto hanno detto scrittori di grande levatura. È il caso di Vladimir Nabokov, russo naturalizzato americano, critico e saggista e autore tra l’altro di Lolita, che in Lezioni di letteratura (Adelphi, 519 pagg., 26 euro) ci parla diffusamente di Jane Austen, Charles Dickens, Gustave Flaubert, R.L. Stevenson, Marcel Proust, Franz Kafka, James Joyce. In particolare, si sofferma sul narratore irlandese, autore dell’Ulisse, libro di 260 mila parole scritto a Trieste, Zurigo e Parigi, pubblicato in parte nella Little Review.

Si svolge in una sola giornata (giovedì 16 giugno 1904) a Dublino, sulla base di ricordi di un esule e di informazioni raccolte minuziosamente da un annuario irlandese. Il protagonista è Leopold Bloom, piccolo imprenditore pubblicitario, anzi “un piazzista di pubblicità”. A differenza di Swan, uno degli “eroi” della Recherche di Proust, Bloom ha una personalità molto netta: è un esule, “una pecora nera” nell’ovile irlandese, una sorta di ebreo errante anche se, sostiene Nabokov, tratteggiato in modo razzialmente grossolano. Una persona come tante, ma «sull’orlo della pazzia, quantomeno un esempio clinico di estrema ossessione e perversione sessuale, con curiose complicazioni di ogni specie». Comunque è chiaramente eterosessuale, a differenza dei personaggi di Proust che agiscono nella sfera “di mezzo”. Sacrosanta precisazione: omosessuale deriva dal greco: “homo” sta per eguale e non proviene dal latino uomo, come crede forse la maggior parte dei lettori.

La fattoria. Una volta si parlava, nel bene e nel male, di letteratura impegnata. Poi si è dato spazio alla vita privata e a certi periodi storici che venivano infilati nel frullatore narrativo. Di questi tempi un altro tipo di impegno si affaccia: l’ecologia. Non è roba da snob, visto che mese dopo mese leggiamo o sentiamo di cifre oggettivamente allarmanti sul cambiamento climatico. Una sciagura imminente. Ebbene, uno degli scrittori americani più noti, Jonathan Safran Foer (lo ricordiamo per Ogni cosa è illuminata) affronta di petto il tema della sopravvivenza del pianeta e quindi dell’umanità, in Possiamo salvare il mondo prima di cena. Perché il clima siamo noi (Guanda, 314 pagg., 18 euro). Passione e documentazione si intrecciano, spiegandoci anche cose “strane”. Per esempio, afferma Foer, gli allevamenti industriali sono da additare come catastrofici in quanto emettono due potentissimi gas sera (metano e protossido d’azoto) e divorano letteralmente terre coltivabili, acque potabili e antibiotici. La deforestazione è per l’80% effetto degli allevamenti. Il pianeta non è tanto una fabbrica (che già è cosa spaventevole), ma un’immensa fattoria. Che fare? Per salvare la Terra servono atti individuali: niente prodotti d’origine animale “prima di cena“ (pare uno slogan). Puntare sul cibo vegetariano non è più da élite. Foer confessa, con ammirabile onestà, di amare carne e latticini, quindi si affranca da abitudini e gusti personali. In conclusione sta al singolo rimediare ai guasti. Se aspettiamo la soluzione “dall’alto” stiamo freschi: bisogna agire giorno dopo giorno. Bisogna essere emozionati oltreché consapevoli. Una rivoluzione connotata in termini “sentimentali”.

Deserti. Quel che scrive il madrileno Sergio del Molino oltre a essere vero è molto curioso. L’europeo medio lo ignora, a meno che sia un grande viaggiatore. L’autore di La Spagna vuota (Sellerio, 369 pagg., 16 euro) sostiene, dati alla mano, che attorno alle principali città iberiche c’è il vuoto. Se, per esempio, Madrid è l’apoteosi dell’urbano, poco lontano da Puerta del Sol (nucleo emotivo dell’urbe) non c’è niente, e questo niente è ben visibile se si esce da altre città. Attenzione però: «C’è una Spagna vuota in cui abita una sparuta minoranza di spagnoli, ma c’è un’altra Spagna vuota che vive nella mente e nella memoria di milioni di spagnoli». Sergio del Molino ha modo di raccontare antiche credenze, alcune delle quali oscillano tra il religioso e il violento.  Da secoli è così. Secondo i dati Ocse, ancora oggi più della metà del territorio iberico è rurale, mentre l’80% della popolazione vive nei centri urbani, alcuni dei quali si sono fatte metropoli. Una significativa parte dell’esodo, e quindi del declino rurale, avvenne tra il 1950 e il ’70. Milioni di spagnoli hanno fatto un viaggio “col solo biglietto di andata”. In poco tempo la campagna è diventata a luoghi di residenza per anziani, sprovvisti di attività produttiva e spesso privi dei servizi essenziali.

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