Pier Mario Fasanotti
A proposito de “L’occhiale indiscreto”

L’Italia di Flaiano

Adelphi pubblica una nuova raccolta di appunti di vita vissuta di Ennio Flaiano. Dai riti (inutili) del fascismo a quelli (fascinosi) del mondo del cinema. Ma ne esce un ritratto impietoso degli italiani che «adorano la realtà ma la vedono soltanto quando è a dieci centimetri dal loro naso»

È senza alcun dubbio uno dei migliori ritratti di Benito Mussolini, o meglio: della sua parabola politica. Niente macchina da presa, niente filosofeggiare, nessuna indignazione. Basta passare in rassegna i cappelli usati dal duce negli anni. Eccoli, dalla tranquillizzante tuba del 1922 al feltro nero con la tesa rialzata della Repubblica Sociale. Ci sono nel frattempo la feluca, la bombetta, la lobbia alpina della milizia, il nero fez degli arditi, la nudità di una testa rasata («In quel modo la necessità divenne virtù romana»), l’elmetto di cartone, la civetteria della bustina nera del gregario. E così via fino a un dramma disegnato alla perfezione: «Un berretto nazista rigido, sinistro, filettato di rosso, con nere passamanerie e un aquila ancor più intollerante delle altre».  L’occhio che guarda e descrive è quello di Ennio Flaiano, una delle più brillanti intelligenze del Novecento. Fu giornalista, critico cinematografico, titolare di molte rubriche, scrittore.

Adelphi ha appena pubblicato L’occhiale indiscreto (279 pagine, 15 Euro). Indiscreto, fulminante, certamente, ma in grado di essere molto pietoso. E sempre attento ai piccoli e grandi difetti degli italiani. Spesso apertamente sconfortato. Commentando le statistiche (nel ’41) riguardanti le spese voluttuarie, annota che l’italiano “medio” spende cento lire per il tabacco e soltanto 15 per il cinema e 6 per i giornali. E così commenta: «I secoli passati definivano; il presente controlla. Privato delle statistiche, il nostro secolo dovrebbe con ogni probabilità ricominciare da capo».  Per Flaiano esiste anche una “metafisica quotidiana”. Consiglia di fotografare una scritta su un muro laterale di piazza Colonna: «Il Re d’Inghilterra non paga». Sotto ci sono molti uomini che leggono il giornale. Usando bene le ombre e lo sfondo bianco calce, si potrebbe sintetizzare così la pittura dei macchiaioli.

Chi va al cinema o a teatro che «di questi tempi si accorge che al di sopra delle guerre, delle riforme e dei fenomeni che sconvolgono il mondo (siamo sempre nel ’41, ndr) rimane sempre l’Ottimismo. La gente si diverte senza sospetto. È suo diritto, d’accordo – continua Flaiano – ma ci fa pensare troppo a quel signore che non sapendo che era cominciato il diluvio universale era incerto se prendere o no l’ombrello». Ma c’è dell’altro: «Passeggiando nel ridotto guardo una signora che sfoglia il giornale e per la prima volta vedo – come ci accade di vedere e di capire improvvisamente il significato di una cosa a cui siamo abituati – vedo i titoli che parlano di bombardamenti terribili e necessari».

Annota la curatrice di questa raccolta, Anna Longoni, che quella di Flaiano «è la messa a fuoco di un dettaglio, il trattare dei vizi minori per alludere ai vizi maggiori… la sua era la cifra di uno scrittore che, cronista d’eccezione, quasi sempre in poche righe racconta il recente passato e osserva, tra speranze e delusioni, il confuso presente».

Flaiano, un anno dopo la dichiarazione della guerra, informa che «dilaga oggi tra gli intellettuali l’uso di stimolanti e di insonniferi, tramonta il veronal e nasce la simpamina. È certo – aggiunge – che all’epoca dell’Insonnia sta succedendo l’epoca contraria. Pertanto chi ha lavori, poemi da condurre a termine, chi ha mani in pasta nel cinema e nel giornalismo si aiuta ormai con le pastiglie… comunque, se gli scrittori seguiteranno certe pratiche sarà bene che i lettori anche si decidano a seguirle; se vorranno beninteso seguitare a capirci qualcosa».

Il 4 e il 5 giugno 1944 l’armata del generale americano Clark entrò in Roma senza trovare alcuna resistenza; i tedeschi ripiegavano velocemente verso il nord. Flaiano, appostato sulla Flaminia, osserva i romani per poi scrivere: «Stanno fermi le mezz’ore a guardare le colonne in marcia… qualcuno dice “Che ricchezza di materiale!”, qualcun altro commenta: “E volevamo metterci contro questi!”. Sono gli stessi che il giorno dello Statuto andavano a vedere la rivista. Gli stessi che credettero al “segreto“ di Marconi per fermare il motore degli aeroplani, e che davano spacciata la Russia in un mese. Gli stessi che appena quindici giorni fa si accalcavano attorno ai furgoncini tedeschi della propaganda e leggevano i manifestini da capo a fondo, e che dicevano: “Però il tedesco è organizzato”. Adorano la realtà ma la vedono soltanto quando è la dieci centimetri dal loro naso».

Flaiano racconta l’euforia di una notte di luglio, quando un amico che sta leggendo un libro a letto sente la gente urlare per strada. Si stupisce, non ci dovrebbero essere cortei. E sente ripetere una frase ad altissimo volume: “Evviva il matrimonio!”. Ma che voleva significare? Forse una nuova legge sulle nozze? Si ricorda poi che agli scapoli, come agli ebrei, «veniva per caso addossata la colpa di osteggiare l’ascesa della Patria. Si sarebbero quindi verificate persecuzioni di scapoli?». L’uomo scende in strada per informarsi e capisce che il corteo non aveva inneggiato al matrimonio ma al maresciallo Badoglio. Flaiano specifica che quell’amico aveva il sacrosanto terrore di sposarsi per obbligo. Di qui l’equivoco, anzi l’incubo. «Un altro dei nostri amici, da poco reduce dal confino» – racconta ancora lo scrittore – lascia in bicicletta la campagna, dove la radio non funzionava, e si dirige verso Roma. Quindi ignorava la liberazione della capitale: «Fu fermato da una banda di giovanotti. Erano eccitati e d’aspetto poco promettente. Gli chiesero: “Sei fascista?”. Silenzio. Gli ripeterono la domanda e lui rispose di sì. “Da quando sei iscritto?” Rispose a caso: “Dal 1925”. “E vuoi bene al duce?”. Risposta: “Sì”. A questo punto ebbe il primo ceffone; gli altri non li contò neppure. Nel parapiglia gli sfasciarono la bicicletta e l’apparecchio radio: e seppe, insomma, a quel modo che Mussolini era caduto. “Dopotutto”, concludeva raccontando l’episodio, “ne valeva la pena!”».

Sulla fine del fascismo non tutti furono informati. Molti chiedevano e, una volta rassicurati, osavano commentare: «Era un gran puzzone». Flaiano in poche righe sbeffeggia i gerarchi. Uno di questi, un console della milizia ignaro della grande novità, urlò a uno che lo insultava: «Intanto datemi del voi». Commento dello scrittore: «Nessuna storiellina come questa ha saputo esprimere quell’incoercibile propensione fascista per i particolari inutili e per il formalismo. Tutto stava crollando e il console pensava al “voi”. Sulla porta incrociò un giornalista che portava, ansante, la grande notizia».

Nel dopoguerra mutarono abitudini e comportamenti. Flaiano si sofferma sovente sul cinema (anche perché faceva il critico): «Per molto tempo il pubblico andava a vedere delle figure in movimento, poi vennero gli attori famosi, poi il colore… Sino a vent’anni fa il pubblico conosceva di preferenza i divi, poi i registi, a scegliere, a leggere i critici dei quotidiani. Insomma oggi nessuno va più al cinema per vedere le figure in movimento, ma semmai per sapere quale filosofia muove queste figure». E conclude amaramente: «La crisi del cinema nasce dal preciso momento in cui il cinema, da invenzione ottica, accenna a diventare arte o filosofia, e a porsi cioè dei problemi estetici e filosofici». C’è amarezza anche in quest’altra considerazione: se decenni prima il pubblico affluiva perché il film era ambientato in Polinesia: «oggi è lo spettatore a voler andare in Polinesia, e ci va. Per anni e anni lo spettatore è andato al cinema per vedere come si fa l’amore, oggi è lui che fa semplicemente l’amore. Il medium ha esaurito la sua propria funzione».

Ennio Flaiano collaborò a varie testate. In un’intervista del ’72 confessò: «Sporco la carta per diversi giornali, per non rovinare il mio, così bello». Fu sempre a caccia di particolari in grado di illuminare una grande porzione di realtà o, in tempo di dittatura, alludere in modo sofisticato al proprio dissenso. Per esempio ricordò, in una rivista abbastanza allineata come Documento, di aver letto che un testo di Racine edito a Bologna nel 1699 era stato scritto dal “signor Rasino”. «Prova del fatto che la potenza di un popolo si vede anche nel disdegno del linguaggio altrui». Chiara allusione alla ridicola smania del fascismo di italianizzare parole e nomi stranieri.

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