Lina Senserini
A proposito de "Il caso Kaufmann”

Il romanzo dell’odio

Giovanni Grasso racconta una storia d'amore e di normale razzismo nella Germania di Hitler dove dire di qualcuno che era "democratico" equivaleva a insultarlo. È un romanzo scritto vent'anni fa e pubblicato solo ora. Ma è terribilmente attuale

Leo Kaufmann è il capo della comunità ebraica nella Norimberga degli anni Trenta, subito dopo l’ascesa di Hitler al potere. È un commerciante sessantenne molto ricco e rispettabile, stimato e amato dai propri dipendenti, vedovo da alcuni anni, schivo e solitario. Irene Seidel è la figlia ventenne di un amico, giunta in città per frequentare un corso di fotografia, che Leo è ben felice di ospitare in un piccolo appartamento nell’edificio in cui lui stesso vive.

Inizia con la naturalezza di una situazione familiare e di amicizia la storia raccontata nel nuovo libro di Giovanni Grasso, Il caso Kaufmann (Rizzoli, 382 pagine, 19 Euro): ultimo in ordine di pubblicazione, ma pensato e scritto 20 anni fa, fresco vincitore del Premio Capalbio 2019 per il romanzo storico. Giornalista, firma storica di Avvenire, scrittore, autore televisivo, consigliere per la stampa e la comunicazione del Presidente della Repubblica, direttore dell’ufficio stampa della Presidenza della Repubblica, Grasso ha scritto un romanzo coraggioso, una storia vera, che aveva in precedenza letto nel saggio La distruzione degli ebrei d’Europa, di Raul Hilberg da cui ha preso spunto per raccontarla in forma di romanzo, cambiando solo i nomi. Una storia che fa riflettere sulle conseguenze dell’odio, che trascina il lettore nel vortice delle drammatiche vicende che sconvolsero l’Europa, ma che regala anche la dolcezza dei sentimenti mentre tutto intorno è follia.

Un libro in cui ricorrono con frequenza parole e concetti come razza, razzismo, violazione, inquinamento, epurazione, perché Leo e Irene, tra i quali nasce pulito e spontaneo un rapporto di amicizia, di condivisione, di piacevole compagnia, di affinità intellettuale e mentale malgrado i 40 e passa anni che li dividono, agli occhi della Germania ariana sono colpevoli: il loro rapporto è lordura appunto, un inquinamento della razza che li porta inesorabilmente verso il processo e la condanna, pur non essendo consumato, pur rimanendo inespresso.

Il romanzo storico che Grasso ha scritto basandosi sulla loro vicenda, come dice lui stesso, «è composto con i mattoni della verità e dei documenti, tenuto insieme con la malta della fantasia e dell’invenzione, come si addice al genere. Nasce dal desiderio di dare un volto e un quotidiano alle vittime dell’antisemitismo. Persone ridotte come bestie che per lo più siamo abituati a pensare nei campi di sterminio, nei treni della morte, nei rastrellamenti del ghetto, ma che invece sono state annientate anche nei gesti e nei rapporti della vita quotidiana, vittime della diffidenza, dell’ostilità, della volgarità del razzismo che Hitler aveva scientificamente instillato attraverso una campagna di odio senza precedenti».

Così sono i vicini di casa, la portinaia, il fattorino a guardare per primi con sospetto all’amicizia tra Leo e Irene. «A quei tempi, quando tutti erano nazisti, dire “democratico” a qualcuno era un insulto, peggio che dirgli “ladro”, “mascalzone” o “carogna”», racconta infatti, molti anni dopo, Eva, la portinaia di Kaufmann, nell’incipit del libro. E ne racchiude in queste poche parole il senso profondo, su quanto sia difficile capire in tempo i propri “tempi”. Nessuno sembra rendersi conto di quel che sta succedendo, quindi; e intanto la situazione politica in Germania è sempre più allarmante, in un crescendo di eventi che culminano con l’espulsione dapprima di tutti gli ebrei stranieri dal territorio, poi con la prima “caccia al giudeo” nella Kristallnacht, il 9 novembre 1938, e la distruzione di negozi ebrei e sinagoghe in tutte le città tedesche. Questo, anche per Leo e Irene, è l’inizio della fine, dalla confisca dei beni di lui, all’arresto, al processo e alla drammatica fine con l’accusa di “inquinamento razziale” per aver avuto rapporti sessuali, mai provati, con la ragazza. La condanna doveva essere esemplare e tale fu, al termine di un processo terribile e ingiusto, segnato dal fanatismo e dall’odio.

Così, le parole di Hitler, tratte da Mein Kampf e riportate in epigrafe, suonano ancora più terribili e sinistre: «La contaminazione del nostro sangue, ciecamente ignorata da migliaia di persone del nostro popolo, è oggi premeditatamente perseguita dagli Ebrei. Questi parassiti dai capelli neri violano di proposito le nostre ingenue, giovani, bionde ragazze, compiendo un atto dalle irreparabili conseguenze».

Interessante anche la postfazione del romanzo che racconta come è nato e che stimola inevitabilmente una riflessione sull’oggi, quando l’odio cieco sembrerebbe alle spalle, ma invece torna in forme prima subdole, poi sempre più evidenti. Anche se Grasso ci tiene a sgombrare il campo dalla analogie con il presente precisando che il libro «è stato scritto nel ’99, poi è rimasto nei cassetti delle case editrici per venti anni. Ho voluto semplicemente raccontare una storia che mi aveva molto colpito – spiega – anche per dare nomi, volti, emozioni alle vittime delle persecuzioni razziali naziste, pur nella consapevolezza che i meccanismi dell’odio sono sempre gli stessi, così come sono uguali le dinamiche con cui si trasforma una minoranza in una minaccia. Basti pensare all’uso scientifico della comunicazione e della propaganda, alla costruzione di fake news, per addossare a una percentuale di popolazione inferiore all’1 per cento la colpa di tutti i mali che affliggevano la Germania. Quello che stupisce è come il Paese ultracivilizzato di allora, nel giro di pochi anni sia tornato a schemi barbari che hanno riportato indietro il corso della civiltà e della storia, ma la paura del diverso, allora come oggi, è atavica, un archetipo antropologico e psicanalitico su cui era ed è facile fare leva. Quello tedesco è stato un razzismo di stato – conclude Grasso – sancito da leggi, ben diverso dal razzismo da bar di oggi, becero e rozzo, per quanto anch’esso pericoloso».

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