Danilo Maestosi
In margine al furto del “wc d'oro”

Cattelan a perdere

L'arte contemporanea ha distrutto il proprio codice, abbandonandosi al primato dell'evento sensazionale e del successo commerciale. Una recente polemica intorno a Maurizio Cattelan è l'occasione per riflettere su un secolo di sconfitte

Un segnale in controtendenza può riaccendere la speranza di rimettere il dibattito sulla rovinosa deriva che rischia di isolare in un’inflazionata ma inaccessibile e indecifrabile torre d’avorio l’arte contemporanea. Solo un piccolo sasso lanciato nello stagno, ma almeno increspa la palude, offre spunti su cui riflettere. Il segnale è un curioso articolo di Francesco Bonami apparso sulle pagine di Repubblica e dedicato a Maurizio Cattelan, 59 anni, padovano, il più gettonato e pagato degli artisti italiani. Punto di partenza, una sua retrospettiva in corso in Inghilterra, in un castello dell’Oxfordshire che è stato dimora Di Churchill, alla quale è stata recentemente sottratta una delle opere, un orinatoio d’oro massiccio, copia di un esemplare entrato in collezione ed esposto in permanenza al Guggheneim New York. Punto d’arrivo dell’articolo di Bonami, una accanita contestazione del calo di ispirazione che governa l’ultima fase della sua produzione e lo esclude dal Pantheon dell’arte contemporanea che si era conquistato come un simulatore spompato senza più idee e rigore creativo.

Cinque milioni di dollari in fumo? Il sospetto che si tratti soltanto di una trovata cattura-attenzione, una delle tante che costellano la sua inarrestabile scalata al successo, è più che fondato. E Bonami, fiorentino, 64 anni, un curriculum da superstar internazionale della critica d’arte decollato in America, non esita ad insinuarlo. Nello stile di ironico picconatore di miti e disincantato fustigatore dei tanti falsi artisti in circolazione che ormai è diventato il suo nuovo look di curatore, conferenziere e saggista. Alle spalle un paio di bestseller e una decina di pamphlet in cui dimostra con argute argomentazioni che la maggioranza di autori, più o meno premiati, sul mercato o in passerella, hanno voltato le spalle o non hanno mai posseduto il sacro fuoco dell’arte vera, quella che ti scuote dentro, che scatena emozioni, pensieri, ti immerge più vivo nel mondo che oggi vivi. Una scintilla che Cattelan ha dissipato, sostiene Bonami che con Cattelan ha condiviso i primi passi e persino qualche decennio fa la gestione di una galleria londinese che è stata comune trampolino di lancio.

Difficile dire se il divorzio tra i due sia mosso da ragioni personali o da considerazioni obiettive. Resta il fatto che per lungo tempo Bonami ha osannato il talento e applaudito le opere di Cattelan. Cadendo, a mio avviso, in una confusione esiziale che è lo scoglio su cui la critica d’arte contemporanea si sta sempre di più incagliando. L’errore è nella incapacità di distinguere tra arte e creatività, assegnando alla prima il merito dello stupore e della sorpresa spaesante che è invece traguardo principale e unico della seconda. Alimentato da una prassi e da una tecnica che appartengono ad altre discipline contigue.

Come, prima fra tutte, la pubblicità. Cioè la piattaforma attorno a cui ruota la odierna società dello spettacolo, approdo globalizzato dell’Occidente e gran parte dell’Oriente di oggi profetizzato con grande acume da Baudrillard mezzo secolo fa. Gli stereotipi della cultura di massa come moneta corrente su cui costruire la propensione al consumo che tutti più o meno abbiamo accettato come marchio d’identità. A volte messi in circolo senza pudore, personalizzati come svolte irreversibili e di facile accesso. A volte apparentemente capovolti per i palati più esigenti. Usati come punti di appoggio per generare sorpresa, effetti-alone di rigetto, curiosità, polemica. La strada, appunto, che ha imboccato Cattelan. Con intuizioni, colpi di scena di forte impatto: come il calco di papa Woytila travolto a terra da un macigno. Oppure ammiccanti: la grande mano di marmo stretta a pugno a sollevare il dito medio, in un gesto da automobilista rabbioso, esposta in una piazza di Milano mentre in Italia montava il movimento dei vaffa…

Prove di indubbio talento. Ma un uso dell’arte come merce a perdere, che la svuota di spessore e di contenuti. Ne lascia indeterminati orizzonti e confini. Bonami, che di queste performance di Cattelan è stato un grande tifoso, sembra arrivare a questo verdetto di sconfessione solo ora. Trascinato da una sorta di simmetria concettuale che lo ha folgorato quando Cattelan ha sfornato uno delle sue ultime provocazioni: sì, proprio quel cesso d’oro, rubato in Inghilterra, che fa il verso al celebre orinatoio capovolto con cui un secolo fa Duchamp profetizzava la morte dell’arte. Ridotto a ironico simulacro, quel cimelio d’avanguardia che fu troneggia, secondo Bonami, come un nuovo annuncio funebre a decretare la fine dell’arte contemporanea, o almeno di un suo ciclo consolidato. Perdonabile per un artista, sempre costretto a fare i conti con ingovernabili impulsi, questo precipitare nel vortice del memento mori, a me sembra invece peccato senza assoluzione per un critico o uno storico d’arte perché lo trasforma in un predicatore, in un mistico, offuscando ragione e vista che dovrebbero fargli da guida.

Peccato di vanità o di superbia, perché dietro questa vertigine c’è la tentazione irresistibile di farsi arbitro dei destini dei sopravvissuti, stabilendo chi spedire al cimitero, o nei casi migliori l’ambizione di governare come strumento di nuova giustizia sociale il fermento dei tempi. Lacerando così quel tessuto continuo, quella trama di andirivieni che regge i processi di produzione artistica, stabilisce legami di affinità e di comprensione tra gli autori e il loro pubblico, costringe gli uni e gli altri a misurarsi con le evidenze e le contraddizioni della vita vissuta, l’evoluzione del gusto e delle necessità. Insomma sbarazzandosi della Storia, delitto impunito con cui l’attualità sembra averci addestrato a rassegnarci e convivere.

Esemplare quel che è successo proprio con Duchamp. E con il suo orinatoio. Uno strumento da bagno in pubblico prodotto in serie che l’artista, emigrato in America, presentava capovolto, privo del suo significato originario e battezzato con un titolo, Fontana, che ne ribaltava l’uso. Era il 1917, il mondo era dilaniato dalla guerra. Quell’oggetto segnava la nascita dell’arte concettuale. L’idea che lo aveva partorito prendeva il posto dell’opera. L’arte rinunciava agli strumenti della tradizione e si impadroniva dell’infinita tavolozza dell’universo. Da lì sarebbe scaturita, nel clima degli Anni Sessanta, anche l’arte povera. Da lì sarebbe partito lo stimolo della pop art, l’immagine riprodotta dei consumi di massa, un quadro, un ritratto fotografico o un barattolo di conserva non importa, eletti ad icona e venduti a cifre da capogiro. Da lì, la matrice paradossale della land art: la rappresentazione del mondo esterno affidata a cartografi che come nel celebre racconto di Borges per essere più fedeli al reale non trovano altro modo che abbandonare ogni artificio di riproduzione a scala ridotta. Geniali invenzioni consegnate dalla complicità della critica che le ha sottratte all’usura del tempo, come esempi da imitare alle truppe di furbi successori e cattivi maestri che affollano la Biennale di Venezia e altre ribalte gemelle sempre più costruite come lunapark.

Non si offenda Cattelan se in questo esercito cinico e senza vocazione iscriviamo anche lui. E non si offenda Bonami, se, nonostante il passo indietro, non crediamo fino in fondo alla sua abiura, che non cambia il sistema dell’offerta dell’arte contemporanea. Non offre nuovi criteri di definizione del campo, che ormai si è dilatato a dismisura, allontanandosi dalle sue radici per abbracciare nuovi spunti d’azione provenienti da territori limitrofi. Il cinema, la fotografia, il teatro, la danza. E ancora nella foga di costruirsi un proprio racconto fondante la filosofia, il giornalismo. In una furia di contaminazione che dimentica o calpesta i codici di quelle discipline.

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