Damiana De Gennaro
Primo appuntamento con “Lingua/Parole”

Ombra/Metamorfosi

Inizia la rubrica curata da Paolo Fabrizio Iacuzzi dedicata alla giovane poesia italiana. Prendendo spunto dall’antologia “Poeti italiani nati negli anni ’80 e ’90”, si chiede ad alcuni giovani poeti di definire una parola comune alla loro generazione e una parola che identifichi la loro propria poesia

Nata nel 1995 a Vico Equense, Damiana De Gennaro è laureata in Lingue e culture comparate presso l’Università di Napoli “L’Orientale” con una tesi sulla poesia orientale classica. Ha scritto “Aspettando la rugiada” (Raffaelli 2017) e ha appena pubblicato “Shibuya Crossing” (Interno Poesia). Nell’antologia “Poeti italiani nati negli anni ’80 e ’90” (Interno Poesia 2018, a cura di Giulia Martini, vincitrice del Premio Ceppo Poesia Under 35 – 2019, è introdotta da Andrea Donna. La poesia che presentiamo è stata scelta per la rarefatta visione di un incontro incancellabile fra una luce e un’ombra. Ma quale fra le due figure è la luce e quale l’ombra? Solo una frase rimane, e un titolo fa forse supporre l’incontro fra una lettrice e la sua scrittrice prediletta. La farfalla presidia la porta dell’Altrove. La quiete verticale di due vertigini, le scale e i grattaceli, è il presidio di un mistero: la quieta accettazione dell’assenza.

***

 

 

 

 

 

Hanno una solitudine le scale

così spoglie dei suoi passi

e un silenzio circolare

che fa rapprendere le ore –

 

l’ultima volta che l’ho vista

le saliva, come sempre, divertita,

e aveva parole di stupore, ah!

Temevo di non vederti più

 

Sotto una piovosa estate appena nata,

mi porgeva un sacchetto fuori moda

con la sua risposta alla mia non-lettera d’amore

e il romanzo “in una notte di tempesta”

 

Stringendo entrambe le mie mani

negli occhi le tremava

un bagliore arcano di farfalla

che sorvola i grattacieli.

 

Ombra
«V’è, forse, in noi Orientali, un’inclinazione ad accettare i limiti, e le circostanze, della vita. Ci rassegniamo all’ombra, così com’è, senza repulsione. La luce è fievole? Lasciamo che le tenebre ci inghiottano, e scopriremo loro una beltà. Al contrario, l’Occidentale crede nel progresso, e vuol mutare di stato. È passato dalla candela al petrolio, dal petrolio al gas, dal gas all’elettricità, inseguendo una chiarità che snidasse sin l’ultima particella d’ombra». Nel saggio In’ei raisan, traducibile come Elogio dell’ombra, Tanizaki Jun’ichirō opponeva criticamente la percezione dell’ombra nel mondo occidentale a quella del mondo orientale. Il saggio è del 1962, e mi sembra che oggi non sia più possibile ricercare differenze culturali così nette, dato che lo scambio avvenuto tra Oriente e Occidente ha dato luogo a un nuovo tipo di identità culturale di difficile definizione. Nell’ambito dell’antologia Poeti italiani nati negli anni ’80 e ’90, mi sembra che l’ombra torni come motivo piuttosto ricorrente. A farne quasi la cifra stilistica della propria riflessione è Giovanni Ibello, nelle cui liriche la parola è riproposta come focus e ossessione: «Così dormi, non vedi e manchi / il teatro spaziale delle ombre; Ci lega la parola feroce, / una giostra di penombre; fiutava l’ombra di un ago sul fondale». Altre voci alludono all’ombra in maniera critica: chi come a qualcosa di violato dalla luce artificiale: «Restano là, nel buio ingiallito / di un lampione» (Milleri); chi come a una dimensione che circonda l’essere: «unire la collina e il mare in un solo punto luce / come gli incroci e le piazze agli angoli della stanza e / gli angoli / in un solo punto luce che sono io». (Borio), o ancora chi ne fa una soluzione efficace di chiusa: «Di lui, neppure l’ombra». (Guarino). Al nostro piccolo catalogo di ombre aggiungerei la voce di Carmen Gallo, che in alcuni versi comparsi sul Quattordicesimo quaderno italiano di poesia contemporanea recita: «‘Ci troveranno’. / ‘Non starli a sentire.’ / ‘Sono già qui. Dove andiamo adesso?’ / ‘Faremo un elenco di tutti i posti sicuri dove / nasconderci. Cominciamo subito. Spegni la luce.’»

Metamorfosi
Mi piace osservare le donne che parlano in maniera vivace. In un mondo così cupo, somigliano a personaggi disegnati: ognuna con il proprio ritmo, l’incresparsi lieve dei sorrisi, dei silenzi. Non che quelle taciturne mi piacciano di meno, ma la cosa divertente delle donne chiacchierone è che puoi stare vicino a loro a osservarle tutto il tempo, senza che smettano per un attimo di tramettere il proprio colore a ciò che le circonda. Creature di questo tipo spesso finiscono per modificare lo spazio, trasformarsi in altre cose. La “donna cactus”, per esempio, è cactus per via di un certo suo gusto nel punzecchiare gli altri con le parole, mentre la “donna narciso” lo è diventata perché è effettivamente un po’ vanitosa, ma anche bella e profumata come il fiore. La ragione della metamorfosi non è sempre così chiara. La “ragazza luna-piena” è così solo per aver indossato spesso abiti grigi. Sono rapita da queste figure come dalle donne raffigurate nei poster di Alfons Mucha. Se una realtà univoca è da un bel po’ andata in frantumi, credo sia lecito prendersi la libertà di costruire una propria realtà servendosi di piante, colori e cose astratte. È chiaro che il mio sguardo non aspira a giudicarle o, ancora peggio, definirle. Ai miei occhi assumono una forma particolare, che annoto per non dimenticare. Domani potranno già essere tutt’altro.

(A cura di Paolo Fabrizio Iacuzzi, poeta e critico, presidente del Premio Internazionale Ceppo)

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