Manuel Giacometti
“Lingua/Parole” per giovani poeti /2

Macerie/Riflessione

Manuel Giacometti percepisce un senso di disfatta comune alla sua generazione che sente alle spalle la più sfolgorante abbondanza ridotta oggi a disillusione e nichilismo. E l’intima convinzione che il linguaggio poetico sia un canale preferenziale per esercitare il pensiero

Nato vicino Firenze nel 1987, Manuel Giacometti si è laureato in Lingue e Letterature presso quella Università degli Studi su “Il tema del sogno in Ono no Komachi”, e poi ha svolto la tesi “Il problema linguistico nella storiografia. L’esempio delle missioni cristiane nella Cina imperiale”. Nell’antologia “Poeti italiani nati negli anni ’80 e ’90” (Interno Poesia 2018, a cura di Giulia Martini) a cui si ispira questa rubrica dedicata alla giovane poesia italiana, è introdotto da Roberto Corsi. Scelgo l’inizio di questo poemetto per la cavalcata dentro i sepolcri del mondo, che rovescia il tema foscoliano perché non vale più la “religione” del ricordo ma quella dello strano e del bizzarro. Una lista infinita di simboli e simulacri funerari per irridere con ironia e sarcasmo a quella smania di eternità che da sempre la civiltà umana propina ai posteri. L’attraversamento delle tombe equivale allora a un passaggio attraverso le macerie della civiltà, nelle quali i feticci diventano specchi del disincanto in una corale meditazione sul nulla.

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Tombali in catalogo

Elucidare le pietre tombali

coi loro p(r)ezzi di marmo

unito, classico o fiorito

d’elleboro, stramonio ed artemisia.

 

Forzare la mano dei morti

sulla parsimonia del tuo soffrire

amare, vivere, morire

tra i sepolcri di grandi dannati.

 

I sepolcri della città del Vaticano,

il monumento alla pace dei bambini,

la tomba di Hafezieh,

il sangue di San Rocco.

 

Rocce impilate a memoriale,

e rimpianti di non essere andati

mai, nemmeno per la festa

a trovare i perduti ricordi.

 

Macerie
È proprio una delle caratteristiche che ho potuto ritrovare nella poetica della mia generazione che più mi ha colpito per la sua uniformità generale e che mi ha consigliato la prima parola evocatrice di queste righe. Se la morte, o comunque (non è certamente cosa nuova, basti pensare al famosissimo incipit di Tolstoj) la sofferenza, sono temi cardine non solo della letteratura ma dell’arte in generale, si avverte in questo momento storico, forse come non mai, un generale senso di rassegnazione. Senza scendere in complesse teorizzazioni, visto che se ne sente attribuire la colpa alle cause più disparate, dalla diffusione dei computer ai vari fallout radioattivi, fino ad arrivare alle più fantasiose ipotesi new age, ci si può facilmente rendere conto di quanto la generazione di cui faccio parte risente di un grosso bagaglio di pesantezza, depressione, disillusione, nichilismo, sfiducia. Proprio perché le parole non bastano a definire lo stato emotivo generazionale avvertibile, ho scelto una parola a me cara e ricorrente in alcune mie poesie: macerie, come se l’immagine che appare alla mente fosse di una generazione con alle spalle la più sfolgorante abbondanza potenziale; ma qualcosa è andato storto, e dunque questa si ritrova a brancolare in un ammasso disordinato, caotico e inquietante di crolli (di cui quello economico è solamente quello più grossolano, ma la lista potrebbe essere assai più lunga e profonda). Sicuramente la mia poesia ha tra i temi ricorrenti questo senso di disfatta generale, ma ho riletto spessissimo anche in altri la medesima sensazione di mancanza, di carenza. Questo produce risultati diversi: se nel mio caso la morte sembra quasi un’automatica conseguenza della vita, inalienabile e dove non naturale addirittura liberatoria, ho trovato che in altri questa assume un aspetto persino giocoso, grottesco sì, ma con caratteri di continuità rispetto alle (forse addirittura più banali) sequenze del vivere quotidiano.

 Riflessione
Riflessione è spesso una parola avvertita fondamentalmente come azione volontaria; la maniera con cui la associo al mio percorso poetico è invece molto più vicina alla spontaneità. Ciò può essere vero in un primo momento, quando il gesto poetico era semplicemente un gioco unito all’intento di mettersi alla prova, per vedere se “si sapeva fare”, ma rimane tale anche dopo la mia prima pubblicazione. Credo profondamente che il linguaggio sia un canale preferenziale per la riflessione e per il pensiero complesso e la poesia ha contribuito in modo decisivo a farmi rendere conto di quanto questo sia stato importante per me. Passato un primo periodo scrittorio più “naïve”, quando progressivamente l’attenzione andava a ripercorrere le mie stesse poesie, assieme a quelle di altri, esse hanno preso a fungere in modo simile a specchi. Specchi per ciò che gli specchi normali non possono riflettere. Si dice sempre che leggere allarga la mente, ma solitamente in ambiente scolastico non si fa mai presente che il lettore può essere al contempo anche un autore, che la sua opera può essere per lui utile al pari delle opere altrui. Altre due sono state le funzioni importantissime di leggere altri e di lasciarmi leggere: fornirmi l’iniziativa per non vedere le cose che scrivo solo come forme-pensiero momentanee ma accettare l’idea che esse possano anche essere fissate per essere fruite da altri, andando a formare a loro volta un contributo e una voce a questa specie di dialogo ed emozionarmi fortemente nel ritrovare temi e similitudini, talvolta addirittura speculari, indipendentemente dalle distanze spaziali o temporali. Senza estremismi (non combatto a spada tratta nessun primato della poesia rispetto ad altre forme letterarie), mi limito ad apprezzare quanto potenti possano essere gli strumenti che questa mette a disposizione nel riuscire a veicolare sensazioni e archetipi, spesso anche in pochi versi, e nella libertà che dona all’espressione scritta.

(A cura di Paolo Fabrizio Iacuzzi)

 

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