Raoul Precht
Periscopio (globale)

Perfetta Iris Murdoch

Ritratto di Iris Murdoch, a cent'anni dalla nascita. Una scrittrice molto british, quasi troppo. Tanto che nei suoi ponderosi romanzi è più facile trovare la perfezione stilistica che le passioni e le contraddizioni degli uomini

Ci sono scrittori con i quali, da lettori, non si va quasi mai d’accordo. Per quanto uno si sforzi di farseli piacere, per quanto uno studi e approfondisca, non c’è verso, si riesce a entrare nel loro mondo solo a prezzo di grandi sforzi, non sempre remunerati da quello che nella lettura dovrebbe essere sempre l’esito finale, il piacere del testo di barthesiana memoria. Ciò non toglie, tuttavia, che da scrittori si possa invece restare ammirati o sorpresi da certe prodezze tecniche, dall’esuberanza narrativa o da talune improvvise illuminazioni. Fra gli autori del Novecento con cui mi cimento da tempo e non riesco a far pace, figura la scrittrice britannica Iris Murdoch, nata il 15 luglio di cent’anni fa e morta nel febbraio del 1999 dopo un rapido descensus ad inferos dovuto all’Alzheimer.

Ora, fra gli scrittori ce ne sono molti che ne sono rimasti, a vario titolo, affascinati. Uno di essi è Peter Cameron, il quale, nella postfazione ripresa nell’edizione italiana di Flight from the Enchanter, 1956 (tradotto nel 2014 dal Saggiatore, non si sa perché, come L’incantatore e basta), sostiene che, a differenza della maggior parte degli altri romanzieri, Iris Murdoch non segue un processo di maturazione, libro dopo libro, ma in un certo senso nasce già perfettamente formata, talché le uniche differenze di rilievo fra la prima e l’ultima fase stanno nella dimensione dei romanzi (che passano da 300 a 600 pagine) e nella complessità dell’apparato, senza che però la Murdoch evolva, o semplicemente sposti il baricentro, in termini di trama, argomenti e descrizione dei personaggi. Cameron sintetizza le cose nel modo seguente: nell’Incantatore, che della Murdoch è il secondo romanzo, i personaggi s’incontrano nel reticolo di una Londra che sembra piccolissima (forse più simile alla Oxford nella quale la Murdoch ha vissuto quasi tutta la vita) in situazioni sempre anomale o forzate; l’amore, lungi dall’essere nobile corrispondenza di sensi, non è quasi mai ricambiato e sembra semmai un campo di battaglia in cui a trionfare è il potere, con i suoi giochi e le sue trame inconfessate; tutte le relazioni umane, anzi, sono vere e proprie guerre, in cui ogni personaggio viene, prima o poi, ferito. E queste caratteristiche, con gradi di complicazione diversi, si ripetono in tutti i ventisei romanzi che la scrittrice ci ha lasciato.

I personaggi sono un elemento di sicuro interesse per il critico che voglia cimentarsi con la Murdoch. In Flight from the Enchanter, ad esempio, abbiamo un protagonista occulto, tale Mischa Fox, che indirettamente domina e determina l’azione, ma il cui potere sembra non essere chiaro né al lettore né alla scrittrice, tanto che non verrà mai svelato. Abbiamo poi una sarta rifugiatasi a Londra e terrorizzata dalla paura di essere rispedita al proprio paese, uno studioso impegnato nella decifrazione di un alfabeto antico e inaccessibile, il giovane direttore di una rivista femminile sull’orlo del fallimento, un’anziana ricca ed eccentrica. Su tutti si stagliano due personaggi femminili in qualche misura complementari e simmetrici: la giovanissima Annette, che dopo aver abbandonato la scuola che frequentava e subìto delle avances piuttosto pesanti scopre se stessa e la sua personalità (anche se, non si sa bene perché, vuole a tutti i costi gettare delle pietre preziose nel Tamigi), e la meno giovane Rosa che, pur non avendo alcuna colpa – è anzi uno dei pochi personaggi “positivi” e altruisti, a cominciare dalla poco appagante relazione che intrattiene con due profughi, i gemelli polacchi Jan e Stefan -, finirà per perdere tutto, solo perché irretita nella ragnatela di Fox, l’incantatore, il cui effetto sugli altri sembra dipendere dal modo in cui questi vivono nel loro intimo il rapporto con lui. Poi ci sono altri personaggi secondari, come il burocrate Rainborough, la cui descrizione consente di verificare come la Murdoch sia capace, quando vuole, di tratteggiare con pochi dettagli una personalità del tutto convincente: “Rainborough non era un individuo intraprendente e non aveva nessuna intenzione di diventare un self-made man a quel punto della sua vita. Pensava che gli sforzi che aveva fatto a scuola e all’università sarebbero stati utili a condurlo per inerzia, con un piccolo dispendio energetico in più, verso una ragionevole carriera da funzionario di pubblica amministrazione, e persino a fargli guadagnare il titolo di uomo illustre.” Il fatto di non essere intraprendente non impedisce però allo stesso, poche pagine dopo, di saltare addosso alla povera Annette, che fino a quel momento non ha avuto alcuna parte nella sua vita, solo perché si trova a passare casualmente per casa sua in un frangente in cui Rainborough si trovava solo e probabilmente si annoiava. L’incongruenza nel carattere del personaggio è imprevista e piuttosto sgradevole: ci si sarebbe aspettati semmai che lo stesso entrasse in un qualche conflitto con la giovane segretaria carrierista che sta per soffiargli il posto, ma per la Murdoch sarebbe stato forse uno sviluppo troppo scontato.

Ora, contro l’eccessiva coerenza della ricostruzione psicologica dei personaggi si era già scagliato un secolo prima Herman Melville, in uno dei capitoli teorici, per l’esattezza il quattordicesimo, di The Confidence-Man, sostenendo giustamente che lo scrittore, anziché piegarsi a stereotipi, deve tenere maggiormente in conto l’incoerenza delle persone reali, lasciando che la fantasia prevalga a volte sul realismo. “Non è un fatto che nella vita reale un personaggio coerente è una rara avis?” si chiedeva Melville, facendosi avvocato delle incoerenze a condizione che poi lo scrittore sapesse trasformarle, alla resa dei conti e alla fine del libro, in quella che chiamava la “giusta armonia”, segno distintivo dei grandi narratori, i quali “provocano meraviglia di fronte all’intricato viluppo d’un personaggio, e poi suscitano ammirazione ancor più grande dipanandolo in modo soddisfacente…” Ecco, è proprio la giusta armonia che non riesco a trovare nei libri della Murdoch al momento di chiuderne l’ultima pagina, anche perché mi pare che i personaggi obbediscano a dei modelli intellettuali aprioristici che a volte prescindono dalla loro intima verità.

Nel numero della London Review of Books dell’11 agosto 2016 Colin Burrow, cultore di Shakespeare e Ben Jonson che insegna, manco a farlo apposta, proprio a Oxford, ha scritto un’accurata recensione della riedizione di due romanzi della Murdoch, A Severed Head (1961), e The Sea, The Sea (Booker Prize nel 1978, che passa per essere il miglior lavoro della scrittrice), e con l’occasione ha tracciato un’attenta analisi di tutta la sua produzione. Tra i tratti positivi elenca la simpatia per gli animali, in particolare i cani, la capacità di rappresentare l’omosessualità senza luoghi comuni e moralismi, e in generale l’estrema tolleranza in campo sessuale, probabilmente legata alla frequentazione del pensiero di Sartre, al quale la Murdoch dedica un saggio giovanile, e degli esistenzialisti negli anni Cinquanta, di cui pure criticherà l’eccessiva fiducia nella capacità dell’uomo di compiere delle scelte razionali. (Minore influenza sembra avere avuto su di lei Wittgenstein, che pure aveva conosciuto e con cui aveva studiato per un breve periodo a Cambridge, anche se qualche riferimento, soprattutto legato alla crisi del linguaggio, compare qua e là nei romanzi.) Inoltre, a parere di Burrow vanno menzionati ancora il talento nel descrivere artefatti ingegneristici e il tentativo, di per sé interessante, di coniugare filosofia e letteratura, metafisica e fiction, l’innegabile influenza di Platone e la costruzione dei personaggi. Proprio questo è però anche uno dei punti più controversi: la concezione platonica – non siamo che ombre, e i nostri desideri illusori e transeunti – rischia infatti di rendere i personaggi mere maschere, confondibili e intercambiabili a piacimento, e i loro sentimenti, in primis l’amore, ma anche l’odio, il disprezzo, la sete di vendetta, possono essere anch’essi trasferiti dall’uno all’altro senza una regola apparente.

A un certo punto della sua dettagliata trattazione Burrow qualifica la Murdoch di anti-novelist, nel senso che il peso delle implicazioni filosofiche finisce per collidere con qualunque costruzione sensata di un plot efficace sotto il profilo narrativo. Un buon esempio è il quinto romanzo, A Severed Head, del 1961 (Una testa tagliata, Il Saggiatore, 2015), che si svolge fra Londra e Cambridge, dove il protagonista decide improvvisamente di essersi innamorato di una donna che fino a un momento prima, per dirla proustianamente, non era il suo tipo, e se ne accorge quando la ritrova a letto con il fratello di lei, che del protagonista stesso è lo psicoanalista. Certo, la Murdoch adotta qui legittimamente un modo leggero, ironico e perfino parodico di trattare temi come l’incesto che può fare scintille, intrigare e stupire, ma non sempre, a mio avviso, “funziona”. E non parliamo delle poco plausibili abilità che i personaggi dimostrano nei momenti (e con gli oggetti) più impensati.

Lo sfondo su cui le figure si stagliano è sempre cupo. “Se gli dei ci uccidono,” scrive la Murdoch in Flight from the Enchanter, “non è per piacere, ma perché li riempiamo di una compassione così intollerabile, una sorta di nausea.” D’altra parte, con tutti i nostri limiti non possiamo far altro che cercare di sopravvivere in un mondo terribilmente confuso, ambiguo, caotico, un mondo del tutto privo di ordine che i nostri fallimenti, e in particolare quelli sentimentali, rendono ancor più imperscrutabile.

Nei melodrammi amorosi che mette in scena – e non è un modo di dire, da A Severed Head sarà tratta da lei stessa e J. B. Priestley anche una fortunata riduzione teatrale -, in cui non mancano appunto tradimenti, incesti, stupri, e perfino omicidi, la Murdoch lascia tracce anche di se stessa e dei suoi molteplici amori, dal poeta e antropologo ceco Franz Steiner, cui affida il primo romanzo, Under the Net (1954), a John Bayley, docente a Oxford e critico letterario, che nell’agosto del 1956 diventerà il suo compagno di vita per più di quarant’anni, ma dovrà dividerla con numerosi amanti: a volte giovani studenti – con uno di questi, David Morgan, la relazione vera e propria durerà un paio di primavere, ma l’amicizia trenta -, altre volte intellettuali di grande fama da cui la Murdoch si sentiva attratta sul piano intellettuale. Un capitolo a parte, a questo proposito, merita ovviamente la relazione con Elias Canetti, modello di uno dei personaggi che la scrittrice riproporrà più spesso nei suoi romanzi, quello appunto dell’incantatore. Della ex-amante, sia pure a distanza di molti anni, Canetti lascerà un ritratto impietoso, davvero al vetriolo, nel suo Party im Blitz. Die englischen Jahre (tradotto in italiano da Adelphi con il titolo Party sotto le bombe. Gli anni inglesi). Quando di mezzo c’è un rapporto sentimentale concluso o fallito le memorie vanno sempre prese con cautela, ma Canetti non è il solo a lamentarsi di una personalità che appare frigida dal punto di vista sentimentale e sessuale, e al tempo stesso avvolgente e manipolatrice. Quel che più le interessava, stando a Canetti, era assorbire dagli uomini che circuiva la loro sapienza e le loro cognizioni, per poterne poi fare tesoro nei suoi romanzi. La Murdoch non era particolarmente attraente: lo stesso Bayley, in Elegy for Iris, ricorda che quando la conobbe fu colpito dal fatto che assomigliava a un torello e che era del tutto priva di fascino femminile. Più equilibrato della descrizione (peraltro divertente) di Canetti è forse il ritratto lasciatone da David Morgan, che parla di una Iris leggermente schizoide, capace di dividersi in due, in una versione seria e una pazza, almeno nei rapporti umani.

Grande osservatrice degli altri, capace di una scrittura dalle qualità mimetiche, in effetti la Murdoch non si è mai peritata di incorporare nei suoi libri brandelli di vita reale. Il suo biografo Peter Conradi racconta ad esempio di averle una volta mostrato quel che aveva imparato durante delle lezioni di yoga, a tenersi cioè in equilibrio sulla testa, e di aver scoperto con divertimento l’episodio, cui lì per lì la scrittrice sembrava non aver prestato alcuna attenzione, riportato tale e quale nel romanzo The Good Apprentice pubblicato poco dopo.

Nello svelare alla nipote i segreti della scrittura, Fay Weldon, altra scrittrice di talento e una fra le più autentiche eredi di Jane Austen, scrive nel 1984 in Letters to Alice (Lettere ad Alice, Bompiani): “Avendo così scoraggiato l’apprendista scrittrice dall’uso eccessivo di aggettivi, mi volgo ora a Iris Murdoch e scopro che ne usa anche diciotto di fila. Funziona. Ciò che è debolezza in piccole quantità diventa stile nell’eccesso. Quindi guardati,” conclude, “da chiunque cerchi di insegnarti a scrivere.” Tanto per capirci e onde temperare le mie rimostranze: l’eleganza della prosa della Murdoch, se non l’ho ancora detto, è indubbia; e la peculiarità del linguaggio di cui di volta in volta si avvale uno dei punti di forza della sua prosa.

Non posso purtroppo trattarne qui l’intera opera, neanche in modo sommario, e ho preferito soffermarmi sui romanzi usciti di recente nella nostra lingua. Peccato solo che la traduzione italiana degli stessi non sia sempre all’altezza, così come la cura editoriale: i refusi sono all’ordine del giorno e la bruttezza delle immagini di copertina grida vendetta al cielo. Detto questo, mi auguro ugualmente che la pubblicazione in Italia dei suoi romanzi continui a un ritmo anche più sostenuto dell’attuale, magari con qualche attenzione in più e riproponendo, se possibile, anche i libri ormai introvabili editi da Feltrinelli negli anni Sessanta e da Rizzoli in tempi più recenti.

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