Raffaella Resch
Al Museo delle Culture di Lugano

Lontani ma vicini

L’Occidente guarda “l’altro”, perché l’“altro” siamo noi: al Musec una mostra sul ruolo svolto dal Primitivismo nel '900 delle avanguardie, in artisti come Picasso, Giacometti, Fontana ma anche Kandinskij e Klee. Tra arte e antropologia una “fratellanza” inevitabile e necessaria

Si parla molto di globalizzazione e diversità, e non ci si aspetterebbe che una riflessione su questi aspetti possa venire da un’istituzione dedicata a conservare e raccontare il passato, come un museo. Un caso molto stimolante è quello del MUSEC – Museo delle Culture di Lugano, che ha riaperto i battenti al pubblico lo scorso 6 aprile, nei rinnovati spazi della Villa Malpensata: dopo una completa ristrutturazione la storica sede del Museo d’Arte accoglie le collezioni etnografiche della città. La nuova veste museale è stata tenuta a battesimo da una mostra che affronta il rapporto tra arte e antropologia, ponendosi la questione di come debba essere inquadrato quel fertile terreno di scambio tra le due discipline, a partire dai primi del ‘900. La collezione del Museo delle Culture proviene dalla straordinaria donazione di opere etniche che l’artista e amatore d’arte Serge Brignoni volle destinare alla città nel 1984. La sede prescelta per ospitare il nascente museo, aperto nel 1989, fu l’Heleneum, una bella villa neoclassica risalente al 1931 con un meraviglioso giardino in riva al lago, intitolata alla ballerina Hélèn Bieber che la abitò fino alla fine degli anni 60, popolandola di mondanità e di incontri culturali.

Nel nuovo MUSEC approda ora una collezione di opere ampliata nel corso degli anni, dove hanno fatto ritorno anche quei pezzi che erano stati assegnati ad altri musei etno-antropologico svizzeri, come il Kunstmuseum di Berna: Je suis l’autre – Giacometti, Picasso e gli altri – Il Primitivismo nella scultura del Novecento (fino al 28 luglio). Il contenuto è dunque più vasto, ma nel tempo anche la vocazione si è affinata e si è venuta ad affermare una visione assai originale, sostenuta da questa mostra inaugurale. L’etnografia ci abilita a guardare alle altre culture, andando a fondo nel significato rituale, magico, ma anche materiale dei manufatti che il mondo occidentale ha di volta in volta “scoperto” e collezionato. Le dinamiche di studio dei reperti hanno avuto vicende che si sono via via specializzate nel ‘900, passando da un’ottica eurocentrica a un approccio il più possibile scevro da ideologie. Guardare alle culture del mondo è fondamentale per valutare le diversità e la compresenza multiculturale, come insegnano i percorsi dei musei etnologici di tutta Europa. Eppure ciò che più pare costituire una connessione tra i popoli, è un valore transculturale, una sorta di inseminazione artistica, una contaminazione, un’affinità o una rivelazione, come la si voglia definire, tra le opere d’arte extraeuropee e il cosiddetto mondo occidentale. La storia dell’arte delle avanguardie del primo Novecento, per motivi storici ovviamente, considerate le date delle prime importazioni dei reperti extraeuropei, ma anche in forza di spinte interne alla ricerca di nuovi canoni stilistici e insieme di “purificazioni” o ”semplificazioni” dell’arte, ci illustra quanto il fenomeno sia stato vasto e policentrico, benché in accezioni diverse, più o meno tematizzate nei diversi artisti.

La mostra affronta quindi questo tema, delicato e variegatissimo, ponendo confronti tra opere di diversa provenienza e natura, non tanto alla ricerca di similitudini di carattere iconografico-stilistico, quando ve ne siano perché più o meno deliberatamente poste dagli artisti, quanto piuttosto per dimostrare o meglio richiamare all’evidenza la portata di carattere strutturale-fenomenologico dei manufatti etnografici sull’immaginario occidentale. La ricerca a cura di Francesco Paolo Campione e Maria Grazia Messina seleziona cento sculture per illustrare la straordinaria comunanza – oserei dire “fratellanza”- tra opere eterogenee che rispondono ad alcuni assunti quali esigenze di espressione stilistica o di rivelazione di un universo interiore. Il percorso si articola in cinque tematiche sostanzialmente di carattere antropologico, identificate come “arcipelaghi concettuali” senza pretesa di esaustività, dai titoli intensamente evocativi che rimandano anche a situazioni precise nella storia dell’arte del secolo scorso. Si dialoga così con snodi centrali affrontati dalle avanguardie europee, come l’arte dell’infanzia, osservata dai più grandi pittori e teorici del secolo scorso, quali Kandinskij e Klee; l’arte dei malati mentali, arrivata all’apice della sua fama con la definizione di “Art brut” che ne diede Dubuffet a partire dagli anni 40; ma anche il tema dell’inconscio e del sogno, affrontato in primis da Dada e Surrealismo. Il tema del mondo magico dei rituali e dei miti, così importante nell’antropologia culturale, si affianca a quello di Eros e Thanathos, amore e morte, fecondità e dissolutezza. Infine, la sezione “Il visibile e l’invisibile” rende manifesto il sottile rapporto che unisce gli artisti al loro universo interiore, nel portare alla luce gli elementi più nascosti della loro creatività, nelle modalità di rappresentazione dei loro mondi, così geograficamente lontani, eppure spiritualmente affini. A questo proposito mi piace citare Paul Klee, uno degli artisti forse più intimamente “etnografi” del suo tempo, che a proposito della zona aurorale della creatività, afferma che siano in grado di vederla «ancora o di nuovo i bambini, i pazzi, i popoli primitivi. E ciò che questi vedono e creano per me è la più preziosa conferma. Perché noi vediamo tutti allo stesso modo».

In esposizione troviamo oggetti di provenienza extraeuropea (per lo più datati tra la fine del XIX e i primi decenni del XX secolo, a parte antichi reperti mesoamericani ) tra cui pali cerimoniali, maschere, feticci, corazze, statue, realizzati in culture africane, oceaniche, indiane, indonesiane e del Centro America; giustapposti a sculture e opere tridimensionali di artisti del XX e XXI secolo, come Alberto Giacometti, Jean Arp, André Masson, Joan Miró, Pablo Picasso, Jean Dubuffet, Louise Nevelson; per gli italiani Marino Marini, Lucio Fontana, Piero Manzoni, Salvatore Scarpitta, gli outsider Umberto Gervasi e Francesco Toris; e poi le grandi Regina e Adriana Bisi Fabbri. Un ricchissimo catalogo di Electa accompagna la mostra con schedature e saggi chiari e utili, per scandagliare questo proficuo e inesausto dialogo che ci fa toccare con mano quanto “l’altro” è in ognuno di noi.

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