Danilo Maestosi
Al Palazzo delle Esposizioni di Roma

L’ultimo Pantheon

Da Titina Maselli a Giulio Paolini, da Plinio De Martis a Gian Tomaso Liverani: sei "siparietti" al Palaexpo per iniziare a ragionare su settant'anni di arte a Roma. Con poco senso della storia e tanta voglia di “piacere”

Pur avendo scontato i contraccolpi della pessima gestione del Campidoglio da parte della giunta grillina con una vistosa perdita di finanziamenti, pubblico e prestigio, il Palaexpo di via Nazionale, a Roma, resta un osservatorio privilegiato per misurare le trasformazioni del sistema espositivo romano. La Storia dell’arte messa al bando come criterio guida dal riallestimento patchwork della Galleria nazionale di valle Giulia. Una fucina di mostre grandi firme come la società Arthemisia buttata fuori dal Vittoriano e in cerca di una nuova sede. Il museo comunale del Macro aperto a tutti i creativi, senza limiti e gerarchie, come tribuna di riflessione e presentazione di quello che avviene o arriva in città dal resto della galassia del mondo di oggi, non solo nel campo dell’arte. Un esperimento, quest’ultimo, dal quale il Palaexpo, sotto la nuova guida di un performer di solida carriera, Cesare Pietroiusti, cui è stata affidata anche la supervisione del Macro, cerca linfa e ispirazione per la propria programmazione. Inseguimento impossibile, vista la distanza incolmabile che separa la platea che frequenta i due luoghi.

In via Reggio Emilia, un pubblico complice e motivato dall’essere là a testimoniare la propria presenza e la vitalità di idee in passerella come segnali di movimenti, interventi e bisogni di cambiamento, cui si offre asilo e risonanza gratuita. Qui in via Nazionale, invece, per via dello sbarramento del biglietto d’ingresso e del diverso ruolo istituzionale, allineato a quello di spazi simili presenti in ogni capitale d’Occidente, una massa di spettatori da prendere all’amo. Il risultato è un cartellone a singhiozzo che con un ricambio piuttosto lento e teniture fin troppo prolungate sgrana richiami diseguali, e non riesce ad attivare e trascura quella che sarebbe la calamita più forte, cioè la sensazione di abitare un posto, attrezzato anche per ospitare cinema, teatro, riunioni, dove in continuazione succedono cose e tu visitatore mescolandoti ad altri visitatori in transito, con attese e gusti diversi, stai contribuendo a farle avvenire.

Non è certo la strategia migliore per rilanciare un contenitore così ingombrante, vincolante e costoso, precipitato ai margini dell’attenzione, ma ha se non altro il merito di offrire di tanto in tanto a questo palazzone umbertino che ha perso appeal l’occasione di sottrarsi alle celebrazioni modaiole dell’eterno, indistinto presente per tornare ad immergerci nel flusso della Storia, di un tempo più distaccato che serve a misurare la durata dell’arte, il metabolismo della sua fruizione. A rivendicare la sua utilità di museo-palcoscenico per rimettere in circolo le memorie e i cimeli di altri musei esistenti o virtuali.

L’opportunità di recitare questo prezioso copione viene stavolta da una mostra, «Mostre in mostra», appena inaugurata e in cartellone al Palaexpo fino al 26 luglio che ripercorre a ritroso l’ultimo mezzo secolo della vita culturale di Roma, balzando da decennio a decennio, per riportare in scena i luoghi, gli artisti e le mostre che in vario modo hanno tracciato le linee di tendenza che poi hanno contribuito a modellare il panorama e i linguaggi dell’arte contemporanea. È il primo atto di un ciclo di ricognizione che proseguirà in futuro con una iniziativa all’anno dello stesso taglio e dello stesso tenore.

Curata con rigore e passione da Maria Bremer e Donata Lancioni, la puntata iniziale di questo viaggio a ritroso è segmentata in sei diversi siparietti ognuno dei quali documenta la coabitazione e le sinergie tra due percorsi creativi, quello degli autori chiamati alla ribalta e quello dei galleristi che li hanno inclusi nella loro scuderia e presentati a Roma. Sfilano insieme in passerella, un’ampia didascalia a raccontare il lavoro di entrambi: Titina Maselli (nella foto accanto) e Plinio De Martis, galleria La Tartaruga; Giulio Paolini (nella foto accanto al titolo) e il titolare della galleria La Salita Gian Tomaso Liverani; Luciano Fabro e Grazia Bontempi, fondatrice degli Incontri internazionali d’Arte; Carlo Maria Mariani e il gallerista torinese Gian Enzo Sperone, che aveva appena aperto una sua filiale a Roma; il belga Jan Vercruysen e il gallerista Pieroni; Myriam Laplante, canadese di origine bengalese e i soci della Fondazione Volume ancor oggi in funzione accanto a Regina Coeli.
Sessant’anni di avventure artistiche passate al setaccio con balzi di un decennio e l’attenzione a riportare in scena, per quanto possibile, le opere originali allineate in ogni mostra. Insomma un modo di fare storia seguendo la bussola della cronologia e della filologia che a me pare un inversione di tendenza promettente rispetto alla deriva postmoderna che predica la rassegnazione all’estetica dominante della superficie, al dominio delle icone da marketing.

La mostra si apre con Titina Maselli. È il 1954. La pittrice si è appena trasferita in America, lasciandosi alle spalle la guerra fratricida tra astrattisti e realisti che infiamma l’ambiente romano. Osserva e ritrae New York, le sue dimensioni dilatate, il suo slancio verticale, i suoi riti sportivi, con uno stupore ancora intriso dalla malinconia di chi ha vissuto gli orrori della guerra e sta vivendo le incertezze della ricostruzione. La tavolozza dei suoi colori a olio imprime sulla tela impronte molto dense e cupe, un alternarsi fascinoso di spesse superfici nere e verdi che riverbera echi delle periferie di Sironi, dei palazzoni dormitorio di Vespignani. Una pagina dimenticata della sua biografia d’artista che prepara il suo successivo trapasso verso una pittura più veloce e dinamica in sintonia sempre più accentuata con i dettami dell’arte pop. Comprensibile l’attenzione che le riserba un gallerista emergente come Plinio De Martis, grande scopritore di talenti e impareggiabile sismografo delle mutazioni che investono la scena della capitale.

Dieci anni dopo a raccontarci la rivoluzione degli anni Sessanta ecco sulla ribalta un Giulio Paolini, ventiquattrenne agli esordi chiamato da Torino, che diventerà culla dell’arte povera, ad interpretare nelle sale della galleria la Salita la spinta radicale che circolava nell’Italia ribelle di allora a tagliare i ponti col passato e spingere l’arte verso i confini estremi di un irreparabile grado zero. Lo spettacolo della pittura ridotto all’esibizione dei suoi materiali e alla demistificazione dei suoi rituali, la tela sostituita dalla nudità specchiante di superfici di legno o faesite, oppure nascosta, ribaltata verso il muro. Un processo che conserva a distanza di tanto tempo un suo fascino ascetico, quasi una parabola zen. Eppure partorisce un paradosso, uno dei tanti che costella il cammino delle ultime avanguardie del Novecento: l’urgenza di rifondare il linguaggio di una nuova democrazia ribaltata in un’operazione così aristocratica, elitaria da scavare un fossato profondo tra l’arte del futuro in gestazione ed il grande pubblico. Da rendere indispensabile per interpretare questa sorta di esperanto che entra in circolo, fino a improntare di sé l’intero sistema dell’arte, la mediazione di critici, esperti, padroni del gusto.

L’arte non va in paradiso ma si costruisce un nuovo Pantheon, remoto e inaccessibile ai non addetti ai lavori, come quello rappresentato con toni beffardi in pieni anni Ottanta ed esposto nella filiale romana del gallerista torinese Sperone (ripescato dal Palaexpo in un altro siparietto della mostra) da Carlo Maria Mariani (nella foto accanto), con un’enorme tela, affiancata da un cartone preparatorio. Citazione e parodia del celebre capolavoro rinascimentale ”la Scuola di Atene”. Tra i personaggi in posa come numi ci sono tutte o quasi le grandi firme dell’epoca e travestito da puttino c’è soprattutto il critico Achille Bonito Oliva, funambolo del postmoderno, che con un’operazione a freddo profetizzò e riportò in auge il ritorno alla pratica della pittura eleggendone a interpreti una eterogenea pattuglia di cinque artisti. Una via d’uscita dalla drastica sconfessione sessantottina della tradizione che però  ha prodotto a mio avviso danni anche peggiori, relegando fuori classifica altri validissimi maestri del pennello che cercavano l’accesso alla contemporaneità per altre strade. Ma è una bocciatura, un giudizio che qui non viene in alcun modo pronunciato.

Manca in questa mostra del Palaexpo – ma è vizio comune nel circuito autoreferenziale dei curatori di oggi – uno sguardo più critico al passato e al presente. Forse, se si rivisitasse con sguardo meno rassegnato e complice sarebbe possibile riprendere ad interrogarci sul senso e i confini del fare arte, aiutarci a distinguere meglio quello che è originale da ciò che è imitazione. A disfarci dalla tentazione di precipitare l’arte a simulacro del pensiero debole e a narrazione pura e incubatrice di emozioni prefabbricate. Come avviene nella camera degli orrori, targata 2004, confezionata da Myriam Laplante per la Fondazione e riesposta in una sommaria ricostruzione nell’ultimo capitolo di questa mostra. Una sfilata di bambole dai corpi e volti da scheletro. E accanto gli alambicchi del trattamento chimico, un fallito esperimento di eterna giovinezza, che le ha ridotte così. Uno spettacolo splatter a suo modo divertente. Ma quell’aggettivo divertente sempre più spesso usato come strumento di lettura e indice di gradimento di mostre e rassegne internazionali non dovrebbe fare scattare già un doveroso campanello d’allarme?

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