Sergio Buttiglieri
Visto al Teatro Strehler di Milano

La gioia del dolore

Il nuovo spettacolo di Pippo Delbono è un omaggio a Bobò, il suo attore-icona, morto di recente. I suoi attori non sono icone di sofferenza ma sono in scena per quello che fanno, per le loro azioni e le loro parole. Non per stuzzicare il fascino del bizzarro e del diverso

«La gioia conosce l’alfabeto della leggerezza», ci ricorda un Pippo Delbono in particolare stato di grazia alla fine del suo ultimo delicatissimo spettacolo dedicato a Bobó, attore della sua atipica compagnia, scomparso nei mesi scorsi all’età di 82 anni, con cui lui aveva abitato assieme dal 1998 strappandolo dall’orrore del manicomio di Aversa. Bobó – che aveva vissuto tutta una vita rinchiuso perché microcefalo e sordomuto, rifiutato dalla famiglia e per alcuni non degno di essere lasciato vivere se non a vegetare al chiuso di una di quelle orrende istituzioni totali che sono i manicomi – per 22 anni ha girato il mondo con lui e ovunque è stato acclamato per la sua straordinaria presenza. I suoi silenzi, i suoi gesti hanno una profondità che raramente trovavi negli attori più consumati. Bobó era diventato l’icona più vera del teatro di Pippo Delbono. Lui assieme a mister Puma, Armando, Nelson, Gianluca hanno rivoluzionato il modo di fare teatro.

Non sono icone di sofferenza ma sono in scena per quello che fanno, per le loro azioni e le loro parole. Non sono qui per stuzzicare il fascino del bizzarro e del diverso. C’è invece tanta dignità, ironia e autoironia nella loro presenza. C’è tanta bellezza, quella meno codificata, in loro. Attraverso la loro diversità, Pippo Delbono, aiutato dalla preziosa sovrintendenza tecnica dell’attore argentino Pepe Robledo, ci fa trascendere dai nostri luoghi comuni e ci fa intuire un’altra possibile realtà, aiutato magari dalle oniriche atmosfere felliniane che sempre pervadono i suoi lavori.

Anche in quest’ultima Gioia, che abbiamo visto a Milano al Piccolo Teatro Strehler, Pepe Robledo, proveniente dal libre teatro libre (da quasi 40 anni è un rifugiato scappato alla dittatura in Argentina) agisce con precisione regalandoci alcuni dei momenti più intensi della rappresentazione come quando comincia a posizionare metodicamente file di piccole iconiche barchette per tutta la scena nuda, oppure quando inizia a spargere foglie sul palcoscenico, che poi trasformerà in un cumulo di stracci alla Pistoletto, mentre Pippo Delbono ci ricorda: «La gioia tienila. Il dolore, la tristezza, la paura arriveranno, ma intanto la gioia tienila, e arriveranno di nuovo il dolore, la tristezza, la paura e poi ritornerà la gioia». E poi sentiamo in sottofondo la voce di Bobò, che noi ricordiamo con affetto, avendoci emozionato in tutti questi anni, presenza fissa e insostituibile dei suoi spettacoli. Delbono augura buon compleanno a Bobò e ci narra un episodio di una sua tournée di qualche anno addietro in Germania: il folto pubblico, seguì tutto lo spettacolo con grande attenzione in completo silenzio e, alla fine, gli chiese qual era il vero significato dello spettacolo. E Bobò lo spiegò lui stesso il significato, avvicinandosi al microfono, emettendo le sue inconfondibili lancinanti sonorità, che furono più chiare di qualsiasi esplicazione didattica, e così tutti capirono. Bobò, ci spiega Pippo Delbono, portava con se il grande mistero del teatro.

Solo dopo aver attraversato il deserto, solo dopo essere stati irrevocabilmente segnati, è possibile iniziare a cercare la bellezza. O meglio, è a questo punto che la bellezza ci visita e ci sorprende. È una scoperta straordinaria, vitale. Genera una felicità autentica. È per questo motivo che, pur segnati dall’atrocità, certi spettacoli possono essere cosi gioiosi. È per questo, in fondo, che sono così semplici e pieni di poesia come quando alla fine, ci troveremo invasi da un’apoteosi di colonne floreali accompagnate dalla danza di tutti i suoi attori con, in sottofondo, la struggente voce di Bobò. Perché Gioia di Pippo Delbono attua una rivoluzione: quella della poesia e della bellezza in esistenze emarginate e offese che cercano e trovano uno spazio di espressione raggiante e autentica della propria diversità.

Ed è davvero maieutica la capacità del regista, sempre presente sul palcoscenico, a far lievitare l’inaspettata armonia nel suo davvero unico cast, come fosse un nuovo indimenticato Kantor. Il suo è un modo di fare teatro che si esprime attraverso il grido, la danza, il gioco e la vita e che nasce dalla marginalità, dalla malattia e dal dolore. Pippo Delbono, che in Francia è diventato un vero e proprio mito teatrale, in fondo, è il figlio virtuale del teatro crudele e visionario di Artaud. Epigono magnifico del suo teatro del delirio, e come Artaud sa scuotere la nostra apatia, il nostro mimetismo di comodo. Delbono si produce in queste macabre devastazioni dell’anima mettendo in moto tutti i nostri sensi per trafiggerci il cuore e scuoterci, come voleva scuotere Artaud, il suo eterogeneo pubblico.

Il suo è un teatro fatto di membra sudate, di corpi reali che trasfigurano emozioni, di concetti cerebrali contaminati da una disperazione animale che ogni sera inchiodano il pubblico alle sedie, quasi incredulo di quanto la finzione del teatro possa generare, con umili mezzi, grandi e vere emozioni. I suoi spettacoli mi ricordano quello che diceva Julian Beck del Living Theatre a proposito del suo teatro: «Faccio teatro perché questa è la bellezza che ho da offrire contro la distruzione del mondo». Solo dopo aver attraversato il deserto, solo dopo essere stati irrevocabilmente segnati, è possibile iniziare a cercare la bellezza. O meglio, è a questo punto che la bellezza ci visita e ci sorprende, come nel verso che ad un certo punto ci legge,  tratto da una poesia scritta in un campo di concentramento da un’anonima poetessa: «Non abbia mai fine il sospiro dell’acqua».

Con Pippo Delbono e la sua compagnia intrisa di marginalità e asimmetrie, non puoi sonnecchiare, o ti lasci travolgere, tramortire dalla potenza dei suoi testi, oppure ti senti comunque scosso e contento di non aver visto il solito bollito misto delle compagnie di giro istituzionali. Ma non puoi rimanere indifferente alla sua regia. Non puoi non notare la sua capacità di muovere una umanità che non finge. «Io posso fare il pazzo. Voi non la vedete la vostra follia», ci urla ripetutamente durante questa magica Gioia.

E allora comincia a raccontarci la storia di un suo amico, uomo di successo, con tante cose accumulate, ma sempre triste. Noi siamo metaforicamente imprigionati al pari di lui, come ad un certo punto lo è lo stesso regista, al centro del palcoscenico, con una sorta di sbarre che lo circondano e lo isolano. «Il mio amico non sentiva più niente al di fuori del suo dolore anche se aveva tutto».

E Pippo Delbono, che da anni apprezza la filosofia buddista, ci ricorda che, secondo il Buddha, ci sono tre cose che non ci permettono di raggiungere la luce: l’avidità, la collera e la stupidità  Se rimuoviamo questi sentimenti vedremo che l’inverno si trasformerà in primavera. Lui in questo ci è, a suo modo, riuscito perfettamente, anche se in scena, a tratti, sembra un direttore d’orchestra “Invasato” che ha comunque la capacità di condurci in inaspettate partiture “dodecafoniche” che ci aprono inedite percezioni sul nostro confuso senso della vita.

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