Pasquale Di Palmo

Poemetto inattuale

Il poemetto "La spira" si configura come una delle espressioni più compiute dell’opera variegata di Mauro Ferrari. Il poeta di Novi Ligure, conosciuto anche come editore, saggista e traduttore, alterna forme e contenuti. E così storia e utopia, deriva della tecnologia e bellezza della poesia, versi liberi ed endecasillabi trovano posto nella sua ultima pubblicazione per Puntoacapo Editrice

«Vedere è immaginare, / aggiungere la propria ombra / all’ombra degli eventi / per evocare forme nitide / dall’indistinto; ribadire contorni, / compensare la luce di sbieco / perché sia netta l’immagine, / lo sguardo si faccia visione / e nessuno fraintenda ciò che è stato». Questi intensi versi sono tratti dal dal poemetto La spira (Puntoacapo Editrice, pagg. 36, euro 8,00) che si configura come una delle espressioni più compiute dell’opera variegata di Mauro Ferrari.

Il poeta di Novi Ligure, conosciuto anche come editore, saggista e traduttore, affronta, con un approccio che non può non richiamare lo specimen del Sereni di Una visita in fabbrica (ma anche modelli più recenti: si pensi a Loi, Pusterla e Fiori), le tematiche correlate a utopia e paesaggio, impegno e disimpegno, in un’«Italia oppressa da una Storia / lunga e senza Storia». La spira di cui si parla nel poemetto, articolato in sei parti, è quella che scaturisce dalla fabbrica Italsider/Ilva, sita alla periferia di Novi Ligure, dove il padre dell’autore lavorò come operaio. Ferrari si sofferma a investigare, sullo sfondo di un panorama eroso da colori plumbei, terrosi, sfilacciati lungo la dorsale di un’inesauribile foschia, il contrasto tra l’inerzia che contraddistingue l’operato di cittadini equiparati a meri consumatori e quel groviglio di chimere e disillusioni della generazione dei nati tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta, «implumi, inoffensivi, / con utopie concrete e realizzabili / che impastavano gli occhi», presupponente, pur con i dovuti distinguo, l’ideale combinazione «di bello buono e giusto». Il bilancio non potrà che essere in negativo, qualora si consideri che «il cavo d’illusioni e di visioni / che fragile ancorava la vita all’utopia / è un filo marcio che non tiene».

L’autore riesce brillantemente a scongiurare il rischio della demagogia in cui troppo spesso si è irretita in passato la poesia cosiddetta engagée (due tra i massimi esempi, Fortini e Pasolini, non ne furono immuni), affidandosi alle metafore del paesaggio industriale, degradato e degradante, del Novese, sulle pendici settentrionali dell’Appenino Ligure, e avvalendosi, al contempo, di uno stile semplice e diretto, che nulla concede sul versante virtuosistico. Si alternano sapientemente versi liberi ed endecasillabi: «I viali di periferia in attesa della nebbia, / quando le luci gialle dei lampioni / accendono la sera, hanno un fascino / da capitale baltica in esilio». Le rovine degli stabilimenti incombono come mastodontici reperti archeologici, creando un’atmosfera di disfatta sotto cieli appuntiti come selce: «Così riaffiorano dagli anni / le case miracolate e la fabbrica, / un eldorado sommerso / ai laghi della Lavagnina, sempre / più arcano ai vivi e luminoso alla leggenda / man mano che si estingue la memoria». Il poemetto di Ferrari, composto tra 1996 e 2018, si impone, nella sua dichiarata inattualità, come una doverosa riflessione sulla dimensione acritica impostaci da un potere subdolo e invisibile, alla ricerca di «un fondo insopprimibile, / di vita solida che ci respira attorno». Questa autenticità, intravista e mai raggiunta da chi scende «a capo chino lungo i binari / della Storia», rappresenta quel fardello di ideali contro cui è venuta a stagliarsi «la spira ben visibile / di ciò che sale in nulla e si disperde».

Facebooktwitterlinkedin