Francesco Improta
A proposito di "Vivi e lascia morire”

La parola civile

Luca Perrone, con i suoi versi taglienti ed affilati come un bisturi, incide i bubboni della nostra società purulenta e cancerosa, mettendo in discussione l'ordine sociale con parole e immagini che hanno la forza dirompente di una carica esplosiva

Della generazione di trentenni (Ilaria Palomba; Gabriele Galloni; Melania Panico; Gabriele Borgna ecc.) che con il loro talento e il loro impegno hanno restituito alla poesia tutta la sua dignità e il suo antico primato, Luca Perrone, autore di Vivi e lascia morire (Infinito edizioni, € 10) è senza dubbio tra le voci più originali e significative. Il titolo della sua nuova raccolta (infinito edizioni) ricalca testualmente quello di un romanzo di Ian Fleming del 1954 e anche quello della canzone di Linda e Paul McCartney, motivo conduttore del film omonimo diretto da Guy Hamilton nel 1973. Questa canzone, in cui si parla dell’ottimismo ingenuo ed illusorio proprio della giovinezza desti­nato a essere sopraffatto dal disincanto e dal cinismo in seguito alle cocenti delusioni e alle sofferenze immedicabili di cui è disseminata la nostra esistenza, fa anche da colonna sonora a questo libro.

La raccolta poetica è dedicata ad una donna, Ilaria Palomba, di professione poetessa, ma non è un canzoniere d’amore, in quanto Luca Perrone con i suoi versi taglienti ed affilati come un bisturi incide i bubboni della nostra società purulenta e cancerosa, mettendo in discussione o meglio demo­lendo con parole e immagini, che hanno la forza dirompente di una carica esplosiva, l’ordine sociale, politico e culturale. Non è un caso che, facendo la spola tra dentro e fuori, egli disegni un panorama di macerie, materiali e morali, in cui sono coinvolti uomini pubblici e privati cittadini (politici, magnati dell’industria e della finanza, falsi intellettuali, lacchè e servi del potere) e da cui alla fine si salva soltanto un amore inestinguibile per la vita in generale che diventa una specie di imperativo morale o di laico comandamento.

Questa silloge ha una struttura originale: sono in tutto 33 componimenti, con tutte le valenze simboliche che questo numero porta con sé, divisi in quattro sezioni (la ricerca; il ritrovamento, la sbronza e la morte dell’altro), 4 tappe di un percorso umano, poetico e filosofico, alla fine del quale Perrone si propone di mettere in atto la rivoluzione dell’indifferenza, una specie di pessimismo propositivo o eroico volendo scomodare l’ultimo Leopardi, quello della Ginestra a cui si può accostare, fatte le debite differenze botaniche e simboliche, l’edelweiss della copertina che, benché reciso, rimanda a qualcuno o qualcosa di più puro e di più alto che possa sottrarsi alla devastazione e al panorama di rovine descritto nei suoi componimenti.

La struttura, però, pur essendo così precisa, addirittura schematica, viene spesso fagocitata dall’ardore delle immagini e dal furore delle parole che si accendono a intermittenza creando fiammate di senso, di colore e di ritmo. Uno spettacolo fantasmagorico e pirotecnico di grande impatto emotivo e intellettuale, che affascina anche il lettore più esperto e navigato e che ci testimonia della febbrile attività creativa in cui sono venuti alla luce questi componimenti. Il linguaggio è ricercato ed originale, impreziosito da remi­niscenze o citazioni letterarie e cinematografiche (oltre al già citato Giaco­mo Leopardi; Dante; Giordano Bruno; Louise-Ferdinand Celine; Amelia Rosselli; Jodorowski; Gian Vittorio Baldi e i fratelli Coen), corroborato, inoltre, dalla pregnanza di alcuni termini scientifici che non possono e non devono meravigliare vista la formazione prevalentemente epistemologica dell’autore e arricchito, infine, da una efficace strumentazione retorica, do­ve prevalgono l’anfibologia, grammaticale e semantica (discorso interpre­tabile in due modi diversi se non opposti), e l’ipotiposi, penso alle tante malattie, comuni o rare, che vengono citate nei primi versi dei componi­menti e che descrivono in maniera concreta, vivida ed icastica i malanni da cui è afflitta la società in cui viviamo. Ed è talmente efficace e sapiente l’utilizzo di queste ed altre figure retoriche da poter affermare, senza tema di smentite, che non è la poesia che si avvale della retorica ma è la stessa retorica a farsi poesia. Come esempi valgano questi due splendidi versi, quello che apre tutta la raccolta e quello che chiude la terza sezione, Sbronzo: «Ebbra di bruma sfebbri la brama» e «Cigola l’asfalto bilanciato da stupore».

A livello specificamente metrico, i componimenti, esclusi i primi tre, che non a caso fanno parte della prima sezione, la ricerca, sono tutti composti da due quartine intervallate da un distico e incorniciate, in apertura e in chiusura, da un monostico. Sembrerebbe, quindi, che la sua ricerca – come è giusto che sia – si svolga in una duplice direzione, semantica e stilistica. Se si esclude il punto fermo dopo il monostico di apertura che funge da antifona e suona quasi come un’epigrafe, la punteggiatura è quasi del tutto assente per cui il lettore può leggere i componimenti tutto d’un fiato o creare soggettivamente pause di riflessione o spazi dove liberare le proprie emozioni. Per concludere vorrei citare un breve giudizio di Giuseppe Conte, riportato in quarta di copertina: «… sono poesie originali, vitali, pervase di una multiforme malattia delle cose e dell’anima, a volte oscure, sempre lancinanti…».

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Accanto al titolo, un’opera di Gianfranco Baruchello

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