Danilo Maestosi
Al Palazzo delle Esposizioni di Roma

Il teatrino di Jeff Bark

Omaggio a Jeff Bark, divo della New York alternativa. La sua è una fotografia che rinuncia alla ricerca dell’istante dal vivo e si rifugia in un set per inseguire la sua verità. O per sfuggirle.

Raro che un autore ci offra, nell’esporre le proprie opere, una chiave così diretta per interpretarle e assegnare loro un posto nella caotica bacheca dell’arte contemporanea. Non possiamo dunque che essere grati a Jeff Bark, 56 anni, un fotografo americano trapiantato a New York, che il Palaexpo porta in passerella per la prima volta in Italia fino al 28 luglio, per aver incluso lungo il percorso della  mostra «Paradise garage» , costellato di immagini riprodotte, una scena dal vivo, che ne illustra come una dichiarazione d’intenti la nascita.

È un’istallazione sistemata contro la parete di una saletta laterale, animata per il vernissage da una donnona vestita da cameriera tuttofare, che prende posto su una sedia in primo piano. Tra i piedi un tappeto di oggetti ammassati alla rinfusa, come se ne vedono tanti in quella fiera di discariche e trovarobato in cui si sono trasformate l’arte povera e le operazioni di dislocazione di tanti emuli senza genio di Duchamp. Ma basta un secondo sguardo per capire che quell’accumulo è solo un dato di partenza. Che gli oggetti non sono scelti e accostati a caso: un vaso di fiori accanto a un secchio da lavandaia è l’esempio più vistoso. Ma che a ognuno di quei cimeli l’autore ha assegnato una parte, delle precise battute, come ad attori di teatro. Già, il teatro, genere e luogo di rappresentazione a cui ci rimandano ancor più esplicitamente i fondali dipinti alle spalle: fughe di soffitti e colonnati barocchi. Un angolo di garage, quell’hangar alla periferia di New York dove Bark vive e lavora, trasformato in una sorta di paradiso – come appunto dice il titolo che battezza la mostra – per raccontare emozioni e sensazioni di un viaggio in Italia di due anni fa, vissuto con lo sguardo datato e commosso di un turista del Grand Tour che scopre il fascino irresistibile dell’antico e, al ritorno, con una memoria imbottita di immagini-souvenir.

La fotografia che rinuncia alla ricerca dell’istante dal vivo e si rifugia in un set per inseguire la sua verità. O per sfuggirle. È una direzione che molti altri maestri della camera oscura hanno già imboccato: la fotografia che dopo aver messo in crisi con il suo iperrealismo la pittura, a sua volta, per sfuggire alla crisi deve inventarsi un altro spazio posticcio di comunicazione. Rispetto ad altri che lo hanno preceduto su questa strada, primo tra tutti il suo connazionale Lachapelle, creatore gettonatissimo di teatrini pop, Jeff Bark cerca punti d’appoggio in un congegno di citazioni più sofisticato e più colto, con  un contrappunto di banalità quotidiane , riscattate da distacco , fantasia e ironia.

I risultati sono in qualche caso davvero sorprendenti. Tra le quaranta in esposizione, due le foto che ci hanno colpito di più. La prima, scelta non a caso come copertina e manifesto, è dominata in primo piano dall’immagine di una scala da lavori in corso puntata verso l’alto. Subito dietro l’immagine impassibile ed enigmatica di una donna dai capelli rossi che volge verso di noi uno sguardo prima posato sul display del telefonino che regge in mano. Lo spolverino verde che indossa sembra qualificarla come una vigilante. Custode di un museo immaginario praticamente smobilitato, Di fronte, una vetrina che deve aver contenuto chissà quali preziosi cimeli e ora è vuota, un’orbita opaca di polvere e nulla. Alle spalle nella penombra un fondale da chiesa invaso dal buio, che lascia a stento intravedere statue, pareti affrescate, architetture. Il culto dell’antico, su cui si sono formate per secoli le generazioni dei viaggiatori del Grand Tour, ridotto a un malinconico e fatiscente miraggio. Closed set, dice il titolo. Lo spettacolo è finito.

La seconda foto lascia al contrario ancora sopravvivere qualche speranza di resistenza. Come voltare le spalle a un universo di proiezioni fantastiche come quello che Bark ha costruito e ritratto nel suo garage, ispirandosi ad una delle tante battaglie navali che costellano le gallerie settecentesche e ottocentesche di tanti musei europei? Non è tanto il fascino di un tempo remoto in cui la supremazia del mondo si giocava sul mare ,sul mare si fondavano le ambizioni delle nazioni e le fughe nelle avventure infinite di naufraghi e pirati. Quanto piuttosto la gratitudine per le vertigini prospettiche che la rappresentazione di quelle battaglie tra onde in tempesta ci ha sgranato davanti come precipizi d’immaginazione e di senso, che ci hanno addestrato, senza che neanche ce ne rendessimo conto, alle tragedie simultanee e alla complessità delle visioni contemporanee. Un vortice di sensazioni e riflessioni che ora Bark ci restituisce governando come un illusionista i materiali del suo set. L’incastro a mosaico degli scaffali che impone la molteplicità e l’accavallarsi dei piani e dei punti di vista. I modellini dei velieri che sistema in varie posizioni o inclina a suggerirci il sopraggiungere di un onda, l’avvitamento di uno scafo che sta per affondare. L’abilità sta nel mostrarci l’artificio della messinscena e poi nel farcelo dimenticare.

Ma non sempre questo gioco di destrezza riesce. Specialmente quando Bark si fa prendere la mano dal suo palese gusto pittorico e mette in posa vasi e cespugli, spremendo sulla tavolozza colori troppo accesi e marcati. Con una profusione di nature morte, aggraziate come smaglianti ikebana, che non si rassegnano mai davvero ad esserlo. E alla lunga, nonostante l’abilità tecnica, risultano stucchevoli, patinate, superficiali.

Più interessanti, a mio avviso, i suoi ritratti. Le figure trattate a volte come manichini, l’abito che Bark fa loro indossare, spesso più importante delle loro espressioni: una vecchia giubba da marinaio ad evocare l’atmosfera, suggerita dal titolo Risorgimento; un giubbetto da Amleto a connotare lo smorfia ombrosa di un ragazzo che regge in mano un microfono e una rosa; un altro corsetto, tagliato da uno squarcio dal quale un giovane imberbe e corrucciato con le mani intrise di sangue estrae un frutto ammaccato, dichiarandosi nel titolo come una rielaborazione del Romeo shakesperiano. La veste di scena come un eco di ambiguità. Ambiguità su cui Bark si concentra con voluta perfidia, nella galleria di volti, che chiude il percorso della mostra. Lo stesso personaggio, travestito da donna, che esibisce la sua faccia in varie pose, quasi ad inseguire il sogno di una bellezza impossibile , smascherato dalla rughe evidenziate come ferite del tempo e dagli spessi e beffardi strati sovraccarichi di cerone.

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