Giuseppe Grattacaso
A proposito di “Haiku for a Season”

Il gioco di Zanzotto

Negli anni Ottanta Andrea Zanzotto, appena uscito da una terribile depressione, riprese a fidarsi delle parole grazie a degli haiku (un po' irregolari) scritti in inglese. Finalmente, lo Specchio li pubblica nella versione originale e nella traduzione che ne curò lo stesso poeta

Andrea Zanzotto scrisse una serie di brevi poesie in inglese tra la primavera e l’estate del 1984. Sono haiku, o come li definì lo stesso poeta, degli “pseudohaiku”, in quanto per la maggior parte non rispettano la tradizionale suddivisione in tre versi e per complessive diciassette sillabe. Zanzotto conservò questi testi senza renderli pubblici, solo parlandone con gli amici, costruendo così intorno a loro una sorta di involontaria mitologia, alimentata dal fatto che le poesie erano state composte in un periodo particolare della vita dell’autore. Successivamente, il poeta lavorò, non in maniera continuativa, alla traduzione in italiano, dando vita, e non poteva essere diversamente, a composizioni in qualche modo diverse rispetto a quelle d’origine, soprattutto considerato l’approccio linguistico, non da madrelingua, di cui si giovano gli originali.

Le poesie sono state pubblicate per la prima volta nel 2012 negli Stati Uniti, quindi un anno dopo la morte del poeta. Sono ora proposte nella collezione dello specchio Mondadori nella doppia versione inglese e italiana. È evidente dunque che Haiku for a Season | per una stagione rappresenti una tappa singolare nella produzione dell’autore, che pure, proprio per la condensazione della lingua e per lo sguardo inconsueto nella descrizione della realtà che manifesta negli haiku, lascia intravedere gli esiti futuri della sua espressione lirica, che si concretizzeranno nelle raccolte Meteo del 1996, Sovrimpressioni del 2001 e in particolare in Conglomerati del 2009.

L’inglese utilizzato da Zanzotto nei suoi “pseudohaiku” è minimalista, quasi sussultante e post-afasico, e presenta, come suggeriscono i curatori Anna Secco e Patrick Barron nella nota introduttiva, «inattesi guizzi sintattici e concentrazioni di immagine e azione». È evidente come il poeta sia attratto innanzitutto dalle possibilità sonore e dalla rapidità linguistica dell’inglese, così diverse dall’italiano, e che per contro forse possono avere più di un elemento di parentela con gli scatti acustici e con le compressioni della sintassi propri delle forme dialettali così care all’autore di Pieve di Soligo.

Il paesaggio che emerge in queste poesie è spesso popolato da figure minime e marginali, e lascia intravedere improvvise aperture, che non si manifestano però come epifanie, ma sono solo segni della incerta consistenza della realtà, della fragilità di ogni presenza, della frammentarietà della visione: «Voci sottili, sconcertate api e speranze – / tutto sogna di altri viaggi / tutto ritorna in piccoli fitti tagli» o ancora con maggiore malinconico senso di costernato mistero, «Erba, allodole e un sole debole – / chi sospira e sternuta? / Come mai tanta fuliggine nelle gole?», la cui originaria versione inglese può beneficiare di una più concentrata sonorità, «Grass, larks and weak sun – / who sighs and sneezes? / So much soot in throats?».

Quando scrisse gli haiku inglesi a metà degli anni Ottanta, Zanzotto stava riemergendo a fatica e dolorosamente dalle tenebre di una lunga e particolarmente violenta depressione, che lo aveva lasciato passivo, arido anche di fronte alle parole. «È stato un momento cupissimo – ricorderà anni dopo il poeta – come se fossi stato immerso in una palude limacciosa, anzi una fogna, e le parole – pochissime all’inizio simili a crampi verbali – mi venivano fuori alla stregua di bolle. (…) Oscillavo tra il mutismo e un balbettio di pochi vocaboli, drenando degli pseudohaiku che, in una specie di effetto calamita, si congegnavano a gruppi, a coroncine. (…) Nel mio stato patologico, a prevalere erano quelle stille che spesso esprimevo in un neoinglese “petèl”, cioè il linguaggio pre-logico e vezzeggiativo che utilizzano le madri e le nutrici cullando i figli ancora nel nido della prima infanzia!.

In una di queste “coroncine”, emerge la presenza dei papaveri, che diventano, nella loro intensa colorazione e nella gracile delicatezza, quasi lo strumento con il quale segnare i confini del proprio sguardo sul mondo: «Papavero, profumo assente, profumo mentale? / Perché spalanchi l’occhio? / Perché così vivo, unicamente vivo?».

I papaveri ritorneranno poi nelle raccolte successive, in Meteo: «La città dei papaveri / così concorde e gloriosa / così di pudori generosa / così limpidamente inimmaginabile / nel suo crescere, / così furtiva fino a ieri e così, /oggi, follemente invasiva…» (Tu sai che); «Papaveri ovunque, oggi, ossessivamente essudati, / sudori di sangui di un /assolutamente / eroinizzato slombato paesaggio, / sudore spia / di chissà quale irrotta malattia / – mala mala bah bah tempera currunt bah bah – / o stramazzata epilessia (…)» (Currunt) ; o, in maniera ancora più significativa, in Conglomerati, quasi a voler fornire nell’ultima raccolta una definitiva soluzione: «Fiammelle qua e là per prati / friggono luci disperse ognuna in sé / quelle siamo noi, racimoli del fuoco / che pur disseminando resta pari a se stesso / è zero che dona, da zero il suo vero» (la poesia è appunto Papaveri).

Gli haiku di Zanzotto insomma ridanno voce al poeta e lo spingono verso nuove decifrazioni della realtà, verso “sussurri di altri universi”: «Haiku di un’alba inattesa / forse mia – forse cenni / o sussurri di altri universi».

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