Alessandro Macchi
Viaggio nel passato

Giappone 1970

La grande tecnologia e i rituali millenari, un'idea preponderante di futuro e il rispetto del passato: ecco il racconto di un lungo girovagare nel Giappone, quarant'anni fa: quando l'«ordinata armonia» incontrò le geometrie di Kenzo Tange

«Il Giappone esce dal mare. Il mare l’ha respinto come una conchiglia di madreperla. Il mare conserva il diritto di distruggerlo e di riprenderselo», così si era espresso il poeta scrittore Jean Cocteau e niente appare più vero dopo l’esperienza terribile del disastro di Fukushima con le esplosioni della centrale nucleare seguita al terremoto e maremoto dell’11 marzo 2011, un evento della stessa gravità di quello di Cernobyl. Nel 1970, il mio stato d’animo era terribilmente grigio a seguito dello stress subìto per un grave episodio accaduto in connessione con la difficile galleria che stavo dirigendo a Salerno. Ero fuggito in Giappone, unendomi con l’amico Beppe B., a un viaggio degli Ingegneri e Architetti di Torino cui partecipava anche l’architetto Carlo Mollino, personaggio di ampia risonanza all’epoca e anche ora. Ne risulterà una esperienza rasserenante vissuta nel vagare di tempio in valle, di architettura in bosco, di fiume in monte, fra paesaggi umani di antichissima tradizione specchiati in filosofici giardini e avvolti in fascinosi elementi di geometrie e di calligrafie misteriose.

Bangkok. La prima tappa fu Bangkok in Thailandia, l’antico Siam dei libri del mio amato Salgari, sul fiume Chao Phraya o Menam, prossimo all’estuario nel golfo del Siam. Dall’imbarcadero dell’hotel Oriente, ancora quasi degno della bella Époque, ci imbarcammo su una barca di legno dai mille colori diretti al mercato galleggiante: fantastiche barche da fiume lunghe e strette ci passavano accanto e ci stupivano l’equipaggio e il motore dotato di un’asta di manovra verticale lunga quanto basta perché il pilota, stando in piedi come i gondolieri di Venezia, le governasse e così, alto sull’acqua, andasse velocissimo a pieno carico in un traffico di mezzi simili, tutti di gran corsa.

Ne parlavo con Mollino prima della cena scendendo dalle nostre camere grandi dalle vetrate enormi; ci piaceva star seduti tra la flora tropicale non lontani dall’imbarcadero e dalle stupefacenti onde della gran via d’acqua e discutevamo dei costumi visti al mercato galleggiante, uomini e donne dai grandi copri capo che si muovevano agili su barche con funzioni di banco del mercato, talmente cariche che l’acqua color terra lambiva il bordo delle murate.

Già conoscevo Mollino tramite il mio caro amico Enrico suo allievo, e mi piaceva intrattenermi con lui, geniale architetto, professore, designer di arredi e di auto, fotografo, pilota di aerei acrobatici e di auto e teorico dello sci: nel cortile del Castello del Valentino si parlava spesso delle foto di donnine, sue allieve, e chi sorrideva e chi si scandalizzava, mentre oggi quelle foto appaiono eroticamente caste, in pose d’arte. La sera un suo collaboratore che era con lui, Carlo G., parlava fitto di favolosi locali di fanciulle giovanissime, Mollino però non indugiava sull’argomento anche se Carlo G. sembrava il suo pesce pilota, ma lui, se ne faceva cenno, era solo in termini generali di estetica; e questo sarà uno dei leit motiv del viaggio tra il gruppetto di amici.

Dappertutto per le vie, piante rigogliose, acqua, natura prorompente, così diversa da quella stentata della mia Etiopia, ma la città, con molti grattacieli finiti o in costruzione, che allora comparivano solo a macchia di leopardo, la sentivo estranea e tale da mortificare il notissimo complesso della antica Città Imperiale fortificata con i palazzi del potere e il tempio del Budda di marmo che riempiono l’anima di fascino ammirato.

Giappone. Ed eccoci a Tokyo. All’aeroporto accolse il piccolo gruppo Ernesto V., interprete e guida di uomini di affari e con noi c’era Nasi, azionista Fiat in viaggio di lavoro. Ernesto era un giovane torinese che, dopo la laurea, aveva sposato una fanciulla giapponese, Ayco. Simpatizzammo e rimanemmo d’accordo, Beppe ed io, che dopo le riunioni del suo impegno ci avrebbe fatto da guida anche nelle altre tappe del viaggio.

Uno degli scopi del tour era visitare a Tokyo le opere dell’architetto ingegnere Kenzo Tange, realizzate per le Olimpiadi del 1964. Il complesso, composto dallo Stadio del Nuoto per quindicimila spettatori, dallo Stadio per la Pallacanestro, per quattromila, e dal lungo edificio amministrativo coperto da una “passeggiata” che correva fra l’uno e l’altro, mi parve straordinario, ma l’emozione maggiore la provai allo Stadio del Nuoto, un enorme spazio coperto con una ardita e per allora nuova tensostruttura in acciaio, sorretta da due enormi pilastri in calcestruzzo. Era un esempio di come sfruttare la resistenza a tensioni elevate del materiale acciaio, un nuovo indirizzo per l’architettura contemporanea.

Kenzo Tange aveva detto che «voleva arrivare a creare e mantenere una unità di ambiente, in cui spettatori e atleti condividessero la reciproca crescente emozione», e questo intento si coglieva in tutto il complesso specie salendo su in alto lungo i piloni di sostegno delle tensostrutture da dove si ammiravano le due tribune opposte sagomate come due grandi falci, idea derivata certamente dal concetto dei ponti sospesi. Le dimensioni stesse di un’opera – pensavo – portano con sé il suggerimento della struttura: nei ponti si procede dalla trave all’arco, secondo le distanze da collegare, e poi alle strutture sospese, mentre nelle opere civili in cemento armato l’evoluzione statica passa dalla trave alla volta, alla cupola, ai gusci che enfatizzano la statica di “forma”. Ma con il progresso della tecnica ormai anche queste opere si rifanno ai ponti.

Ne parlavo, ne discutevamo tra noi e con Mollino, che nel 1973 aveva progettato, insieme a esperti ingegneri, il teatro Regio di Torino con le sue curve sinuose che ricordano i fianchi di una donna, opera ardita in calcestruzzo, paragonabile a quelle di Kenzo. La volta sottile, anche solo di otto centimetri di spessore, si regge in base alla sua forma articolata che la rende estremamente rigida come un guscio e il Regio va annoverato come frutto d’eccellenza della collaborazione tra architetti e ingegneri, artisti di livello mondiale.

Le vie di Tokyo le percorremmo con Ernesto ed Ayco che, con mio imbarazzo, stava sempre un passo indietro. Tokyo appariva come un agglomerato immenso di più città con edifici bassi perché antisismici, spessissimo avvolti da sgargianti insegne e inframezzati da grandi parchi e templi; ma questi erano solo un prologo per quelli che avrei incontrato più oltre.

Nella vivace Ginza, una delle strade principali, andammo da Mikimoto, il grande negozio di perle: era una vera e propria cascata di vetrine e c’erano anche perle colorate dei mari del Sud: comprai due perle uguali, piuttosto care, in una vetrina in alto nella cascata dove, salendo via via, anche il prezzo saliva.

Tutto in Tokio compariva frutto della vita ordinata di quel popolo inquadrato, dove quasi tutto è prestabilito, previsto: ogni cosa si svolge secondo il programma precedentemente e minuziosamente elaborato. Le città, ci diceva Ernesto, sono suddivise in zone e quartieri in ognuno dei quali si va a fare una data cosa e questo vale anche per le distrazioni: c’è il quartiere dei divertimenti costruito appositamente dove sono ammucchiati cinema, teatri, sale da gioco, caffè.

Per l’addio alla gran Città, Ernesto ci invitò a cena a casa sua. Lasciate le scarpe fuori dalla villetta, ci accomodammo attorno al tavolo molto basso su dei cuscini e, illustrandoci l’ambiente stupefacente per noi, Ernesto ci disse che il tavolo era attrezzato a kotatsu cioè con una resistenza elettrica al centro: d’inverno il tavolo viene coperto da una trapunta che, tirata sulle ginocchia, consente alle persone di godere del calore che sale per tutto il corpo. Mangiammo pesce, noi uomini al tavolo, mentre, a parte, discreta, Ayco serviva, sorda ai nostri inviti a unirci a noi.

Il treno “proiettile”. Era ora di proseguire il viaggio: dalla stazione, pulita, ordinata e disciplinata come si addice a un popolo civilissimo, salimmo sul treno Tokaido Shingansen per Osaka. Quel treno, entrato in servizio il primo ottobre 1964, pochi giorni prima dell’inizio delle Olimpiadi, era ammirato come il più veloce e lussuoso del pianeta: viaggiava a 220-230 Km/ora. La sagoma generosa delle vetture consentiva un grande confort. Confrontammo il treno col nostro Settebello in esercizio ben dal 1952 e concludemmo che il nostro non aveva niente da invidiare al giapponese per soluzioni tecniche e stilistiche innovative, figlie del design italiano che in quegli anni era al centro dell’attenzione mondiale, ma certo correva su linee antiquate e la velocità era di cinquanta km /ora inferiore, gap che ci vedrà appesantiti fino agli anni ’90, quando abbiamo pareggiato il conto tramite i nostri AV. La mia galleria, la Santa Lucia a Salerno, primo tratto del piano ferroviario delle direttissime, era l’inizio del nascere di una rete che avrebbe consentito velocità pari al Tokaido (oggi il Shinganzen ha velocita massima di 360Km/ora come il nostro Freccia 1000).

Distratti dalla novità del treno, ci riscuotemmo per ammirare l’icona del monte Fuji, un monte, un punto, in cui, come dice Fosco Maraini, “il cielo e la terra, l’invisibile augusto e il visibile meravigliosamente bello, le radici più remote del tempo e l’attimo fuggente celebrano un loro incontro” ed io, forse irriverente, pensavo che il Fuji con i suoi 3776 metri è più basso di 100 metri del Monviso e azzardavo, azzardo, un parallelo.

Osaka. Ed eccoci a Osaka, dove si svolgeva l’Expo dal titolo Progresso e Armonia per l’Umanità; la visitammo ma è un’esperienza ormai antica e sposto subito l’attenzione su Nara e su Kjioto.

Nara e le divinità della natura. Il Todai.ji, il Grande tempio dell’est, è il più importante dei sei grandi templi di Nara. È stato edificato dall’imperatore Shomu nel 752, ed è anche l’edificio in legno più grande al mondo. Al suo interno la statua del Buddha del VIII secolo è in bronzo e oro, alta 16 metri e del peso di 500 tonnellate; le altre tre enormi statue sono quelle dei guardiani del tempio.

Di fronte a queste statue, ai monumenti, discutevamo tra noi di come i giapponesi abbiano la fortuna che la loro religione, lo shintoismo, non sia una fede ma un culto con i suoi riti che ammettono la mescolanza col buddismo, per cui molti giapponesi sono shintoisti e buddhisti allo stesso tempo.

Ma il gran fascino e la sorpresa fu di constatare, non senza un interesse vivace e partecipe, che in Giappone esiste la convinzione che otto milioni di divinità vivano nella natura e pertanto si crede da sempre che le montagne, i grandi alberi e le rocce siano divinità e la gente si reca ancora oggi per officiare i rituali nei luoghi loro dedicati e così sono nati i santuari.

La casa delle Geishe a Nara. A Nara Ernesto ci portò in una Casa del The. Entrammo nel villino nel verde, silenti e un po’ eccitati e, dopo poco, apparve silenziosamente una geisha, poi un’altra e si sedettero con noi. Stupefacenti geishe! Il volto diventa una porcellana vivente per il trucco che lo rende più suggestivo tramite le luci che imitano una fiamma di lucerna: sembra di far parte di un mondo di statue che hanno acquistato anima e parola. Le due fanciulle indossavano ricchissimi Kimono, e noi eravamo seduti, un po’ accovacciati, su bassi cuscini, praticamente a terra a gambe incrociate intorno al basso tavolo. Ammirai i kimono: uno aveva un audace motivo a scacchi evocante ideogrammi dalle linee semplici ma disposte con estrema armonia, un insieme grafico e musicale. Le due gheise si esibirono in un abbozzo di danza, ricordo di quando erano Maiko, fanciulle di danza, prima di essere promosse a Geishe. Gli ampi Kimono erano generosamente aperti di lato in alto e comparivano i seni non grandi ma perfetti, …con… diritto di assaggio… e noi chiedemmo dei fatti amorosi e dissero che era una scelta privata, da godersi insieme ai fiori. Muovendo armonicamente i ventagli, mimarono gli alberi e le foglie. Sorseggiammo un tè squisito accompagnato da leccornie che non ricordo, ma più che qualcosa che si mangia erano qualcosa che si guarda.

Facemmo tardi. Tornati in albergo ci aspettava una sorpresa: il nostro gruppetto era partito con i nostri bagagli e non sapevamo neanche la destinazione, uno sfottò di vaga invidia? Beppe era terrorizzato, i soldi erano in valigia e quelli che avevamo con noi li avevamo spesi tutti. Il portiere non ne sapeva nulla e intenderci era difficile. Mi venne un lampo di genio e chiesi i tabulati degli ospiti dell’albergo: riuscii a capire dall’ora di arrivo qual era il referente del viaggio: il sig Kubo. Kubo fortunatamente rispose al telefono e gli parlai e ci diede il nome dell’albergo dicendoci: è un albergo bellissimo in un luogo meraviglioso, in una foresta, e ci rasserenò. Ma come arrivarci? solo con un taxi, ed Ernesto ci imprestò i soldi. Il viaggio fu piuttosto lungo ma, dicevamo tra noi due, «racconteremo di avventure fantastiche e li faremo crepare d’invidia» … cose “vastase” (nel linguaggio di Camilleri) nella casa del the… ed eravamo buoni profeti.

Finalmente eccoci inerpicare con la nostra grande auto sul fianco di un monte in una fitta foresta: finalmente compare l’albergo tutto in legno e a grandi vetrate. Quel bosco era un luogo magico, contrassegnato dal tronco disseccato di un albero, pura scultura con muscoli e pelle: la via verso una qualche forma di verità?… vagare di monte in valle di piante e costruzioni come tempietti lignei, specchi di acqua, isole, pietre simili a sculture sacre …

Girammo nei giorni seguenti nei villaggi dei dintorni e ovunque comparivano case allineate in linee che parevano ubbidire a un disegno, ora diritte, ora oblique sottolineate da file di lanterne o semplici file di pianticelle di riso; poi ideogrammi dipinti sulle facciate o solo cerchi, circoli, anelli. Ma l’interesse mio e i discorsi con Mollino riguardavano soprattutto i giardini zen dove fui preso da commozione e compreso in meditazione.

Kyoto. «La città dei Ruscelli di Cristallo, la città dei Monti Viola», «culla dell’arte e delle tradizioni, il centro visibile della fede, poiché lì stanno i templi più importanti della propria confessione», dice di Kyoto Fosco Maraini e, aggiungo io, della mistica dei giardini Zen. In quella città, dappertutto, nei complessi dei templi, il giardino zen è infatti presente. A Ryoan-ji gli elementi, acqua, piante, pietre, sono rappresentate da nude distese di sabbia in cui le pietre appaiono come gioielli nella loro primordiale bellezza; “fiumi” di ghiaia bianca, bianchissima si scontrano nel loro moto apparente con le grosse pietre, di sagoma simile al monte Fuji: è la meditazione sul dinamismo della natura?

Dopo il giardino di mistica disciplina formale del Tempio “Padiglione d’oro”, andammo al Castello Nijo e nel Palazzo Imperiale e i parchi rinnovarono l’ammirazione: una scala in legno fu particolarmente osservata da Mollino per la sua reiterazione di rettangoli sospesi nel vuoto e quel grande esteta era entusiasta dei gruppi di bambini, di scolari, con cappelli di colori forti come un giallo intenso e mi chiese di scattargli una foto tra di loro.

Ammirammo la bellezza grafica della quotidianità giapponese: gradevole musica di forme, linee, trame consone alla flessuosità delle donne. Mollino coglieva dappertutto delle forme nuove fermandosi sulla sinuosità sensuale di disegni e oggetti: il dinamismo fermo dei giardini parlava delle potenzialità del futuro, velocità e armonia insieme: constaterò che da questa esperienza trarrà ispirazione per la sua inventiva poliedrica con raffinata sensibilità.

Rimasi invece stupito e interdetto davanti al tempio o sala Sanjusangendo con mille e una statua dorata del Budda, che io ora come allora non riesco a cogliere nella loro essenza estetica per l’innato senso greco romano della bellezza che è in noi, ma la scenografia d’insieme mi apparve stupefacente pel fascino dell’esotico misto a un po’ di magia e stregoneria.

Il cielo interiore del Giappone. Dice Fosco Maraini negli anni ’70, quelli stessi del mio viaggio, «… il Giappone, (è) patria dei terremoti, delle piene, dei vortici, dei maremoti, dei tifoni, delle frane, degli incendi, di ogni possibile disastro. Invece il cielo nipponico è popolato di divinità ben disposte verso gli uomini, e questi testimoniano i loro legami con l’invisibile piuttosto attraverso la gratitudine e la gioia che la paura e il sacrificio», ma dopo tanti giardini zen e alberi fioriti degni di ogni rispetto, quell’estetica troppo intensa è, era per me, tale da generare un senso di malinconia, forse la malinconia della bellezza.

Oggi sarà cambiato il mondo che ho vistato ben 50 anni fa? Yukio Mishima dice di come «il Giappone del dopoguerra, per seguire l’infatuazione della prosperità economica, abbia dimenticato i grandi fondamenti della nazione; lo abbiamo visto perdere lo spirito nazionale e correre verso il futuro, senza correggere il presente; lo abbiamo visto piombare nell’ipocrisia e precipitare nel vuoto spirituale». Ma io credo che le divinità della natura siano un ancoraggio talmente forte da consentire delle radici salde per nuovi germogli in una tradizione positiva consolidata in millenni.

Sia di buon auspicio il motto «Ordinata armonia», scelto da una antica raccolta di poesie da Naruhito nuovo imperatore del Giappone dal maggio 2019 (il 126 esimo del Giappone, il Tennò,-“Celeste re”).

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