Filippo La Porta
Visto al Teatro Belli di Roma

Campanile nomade

Al termine di un lungo laboratorio, Magda Mercatali ha messo in scena le "tragedie in due battute" di Campanile con un gruppo di migranti trasformati, per l'occasione, in attori. L'effetto è strepitoso: più che stranieri, gli interpreti sono perfettamente straniati

Mentre vedevo al Teatro Belli Mira la dindondella,  lo spettacolo nato da una idea temeraria di  Magda Mercatali, e da lei diretto – sketch umoristici e scambi di dialogo surreali di Achille Campanile messi in scena da immigrati scarsamente alfabetizzati, che fino a  sei mesi fa non sapevano una parola di italiano – pensavo a una cosa. Per un poeta la propria stessa lingua è una lingua straniera. Un enigma, qualcosa di inappropriabile, una selva di significati spesso oscuri, contraddittori fra loro, incerti. La lingua poetica è infatti polisemica, allusiva. E nessuno può essere mai del tutto sicuro di aver capito una poesia. Pasolini una volta ebbe a notare che il lapsus in Amelia Rosselli, una delle voci poetiche più sperimentali e audaci del nostro tempo, “si fa da sé”, espressione di una lingua “imposseduta” dall’autrice (che pure era trilingue!). Così, quando un attore del Mali o del Marocco o del Perù, come nella compagnia allestita per questa occasione, pronunciava sul palcoscenico le parole di Campanile, irte di doppi sensi e bisticci linguistici, forse senza neanche capirle interamente, ripercorreva senza saperlo l’esperienza che fa un poeta con la propria lingua. In fondo ogni poeta è un migrante, un nomade, che abita la lingua come un continente mai esplorato del  tutto.

Gli attori sono nove, dall’Africa, dall’America Latina, dal Maghreb e dall’Ucraina. La loro partecipazione al progetto è appassionata e commovente. Vi lascio solo immaginare l’impegno, la fatica da parte di tutti loro – e della regista, oltre che degli insegnanti di supporto – nell’imparare a memoria questi testi, nel capirne e  studiarne  tutte le sfumature. Studiare una lingua cominciando dai giochi di parole!

Il laboratorio che ha portato allo spettacolo (Teatro Belli per tre giorni di seguito, 31 maggio, 1 e 2 giugno, con la platea sempre gremita) è durato sei mesi, e si presenta come il fiore all’occhiello della Casa dei Diritti Sociali, associazione di volontariato laico nata nel 1985 con l’impegno di promuovere le persone più svantaggiate  Le aree di intervento sono innumerevoli: tutela dei diritti e advocacy, Intercultura e plurilinguismo, Scuole popolari… I volontari – una cinquantina, compresi i giovani che fanno servizio civile – sono presenti soprattutto nella scuola, nei corsi di italiano per migranti adulti intrecciati a visite guidate, occasioni conviviali, e appunto laboratori (teatrali, informatici e  fotografici).

Torniamo allo spettacolo, che si avvale anche dei costumi di Lia Morandini e delle musiche di Giuliano Taviani. In una scena di Campanile il Granduca di Toscana apprende da Galileo che questi ha scoperto che il nostro pianeta  si muove. “Come ha fatto?” “Col pendolo”. “Sì, ma colpendolo con che cosa?”. “Col pendolo, e basta”. “Va bene ma con che cosa?”. “Non colpendolo ma col pendolo…”. Lo sketch è irresistibile anche perché il Granduca è interpretato da un ragazzo della Guinea e sembra uno dei re magi, mentre Galileo è un egiziano altissimo e allampanato. Alla surrealtà di Campanile si aggiunge un tocco di surrealtà portato naturalmente da questa umanità multicolore e un po’ stralunata, dalla sua recitazione meravigliosamente straniata.

Le parole nel nostro paese hanno perso significato. Chi sta al potere blatera di “libertà”, “giustizia”, “diritti”, etc. Ma ormai la lingua si è svuotata, ha perso qualsiasi legame con la verità. Quando in un altro sketch dello spettacolo un tipo fa delle proposte oscene a una giornalista titolare di una rubrica di posta scopriamo il perché. Nella intestazione della rubrica c’era scritto più o meno (ricordo a memoria): “Risponderemo a tutti quelli che hanno domande da porci”. Lui capisce da pòrci (con la “o” larga) quando evidentemente è “da pórci”, con la “o” stretta. Basta un accento sbagliato! Potrebbe essere un invito – indiretto – a straniare le parole che usa la nostra classe dirigente, a pronunciarle sbagliando gli accenti volutamente, a evidenziarne così la quota di menzogna. Ad esempio chiedere a un nostro ministro se le sue proposte per la migrazione fossero veramente da “pòrci”.

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