Alessandra Pratesi
Visto al Teatro Greco di Siracusa

Le donne di Euripide

La doppietta di tragedie per l'edizione 2019 del Festival del Teatro Greco di Siracusa è dedicata alle donne e al potere. Dal 9 maggio al 24 giugno in scena "Le Troiane" di Muriel Mayette-Holtz e l’"Elena" di Davide Livermore

Le donne e il potere sono i due soli intorno ai quali orbita la 55° edizione del Festival del Teatro Greco di Siracusa. Per scandagliare il tema, l’Istituto Nazionale del Dramma Antico (INDA), con Antonio Calbi al debutto come Sovrintendente dopo l’esperienza romana al Teatro Argentina, sceglie due tragedie di Euripide collegate al ciclo troiano e due regie che più diverse non si potrebbe: Le Troiane di Muriel Mayette-Holtz e l’Elena di Davide Livermore. Come consuetudine dell’INDA, l’una più tradizionale, l’altra più sperimentale, ma entrambi gli allestimenti di grande cura e raffinatezza a livello tanto di ideazione quanto di risultato tecnico ed estetico.

La trama è nota. Dopo dieci anni, la guerra originatasi dal ratto di Elena, moglie di Menelao re di Sparta, da parte di Paride, figlio di Priamo re di Troia, è ormai giunta al termine. Gli Achei, dopo dieci anni di guerra e assedio, hanno infine avuto la meglio e hanno messo a ferro e fuoco Troia, uccidendone i guerrieri e rendendone schiave le donne. Meno note, però, sono le ragioni del cuore dietro la facciata della ragion di Stato, le passioni di uomini e donne dietro i colpi di spada. Euripide questo indaga e questo inscena nei suoi drammi, dove una dimensione più umana e meno astratta si affaccia per poi prevalere, gettando le basi della commedia borghese.

Nelle Troiane sono il dolore e la rabbia delle donne degli sconfitti a costituire il cuore della vicenda, rappresentati nelle infinite sfumature di cui è capace la natura umana. Ecco dunque spiegata la struttura modulare sotto forma di sfilata di assoli proposta dalla regista Muriel Mayette-Holtz, già amministratrice generale della Comédie-Française a Parigi e direttrice dell’Académie de France a Roma. Si comincia con l’esposizione di Ecuba, una magistrale Maddalena Crippa, profonda e austera, fil rouge dell’intero dramma, lei che era regina e madre dei Troiani. Segue la scena della follia di Cassandra, la profetessa figlia di Ecuba, destinata a essere schiava e concubina di Agamennone; è una Marial Bajma Riva ora invasata ora addolorata che entra cantando e saltando, impegnata in una sequenza interminabile e vorticosa di giravolte mentre tiene in mano una torcia. Andromaca, vedova anzitempo dell’eroe Ettore, entra in scena accompagnata dal figlio Astianatte, destinato a morire lanciato dalle mura della città solo perché ultimo erede di una dinastia maledetta. Con la sua interpretazione dell’Andromaca, Elena Arvigo assurge a prototipo della mater dolorosa, incarna la sofferenza di tutte le madri. L’Elena di Viola Graziosi è un modello di orgoglio battagliero e altero; unica donna in scena ad avere la chioma sciolta (quei «capelli sporchi di strage», secondo le parole pronunciate da Menelao) e il seno nudo, ultimi attributi di una bellezza che infiniti lutti addusse. Ottima prova di ars oratoria e di teatro di parole è l’agone tra Ecuba ed Elena: ognuna ha dalla sua verità inconfutabili. Se da una parte l’abbandono del tetto coniugale da parte di Elena ha scatenato una guerra, dall’altra, sostiene indomita, ha evitato alla Grecia il dominio dei Troiani cui sarebbe andata incontro se a vincere il pomo della discordia fosse stata Era o Atena, che promettevano a Paride potere e gloria in battaglia. D’altronde Ecuba accusa la bella greca di essersi fatta incantare dalla promessa di lusso e fasto di Paride. Ogni interprete fa proprio e restituisce il carattere del personaggio in maniera intensa ed efficace. Degno di menzione anche il coro di troiane (tutte attrici dell’Accademia d’Arte del Dramma Antico), cui sono affidati i movimenti scenici, le parti di commento e legante tra monologhi e duetti e, soprattutto, i brani cantati accompagnati dalla chitarra. Le musiche sono originali, composte da Cyril Giroux, e imprimono alla scena il gusto arcaico del mito, così come le suggestive scene di Stefano Boeri ricavate dalla riproposizione degli abeti abbattuti dalla tempesta Vaia nelle foreste Carniche del Friuli Venezia Giulia.

Se Le Troiane di Mayette-Holtz si possono idealmente inserire in una struttura di moduli ripetuti, l’Elena riletta da Davide Livermore è agli antipodi. Lo spettatore è sottoposto a un continuo ribaltamento. Niente è ciò che sembra. Lo specchio d’acqua dal quale è invasa la scena diventa così un monito. Non rappresenta solo le acque del Nilo, ma la forma che la verità assume, ogni volta diversa a seconda di chi la guarda («è vano per noi mortali comprendere la verità dell’apparenza», canta il coro). L’Elena di Euripide è presentata come innocente vittima dei giochi degli dèi: non è mai andata a Troia con Paride, ma è stata condotta in Egitto da Ermes per volere di Era mentre Achei e Troiani combattevano per un fantasma, una nuvola: «i corpi stanno sempre nello stesso posto, i nomi vanno ovunque», commenta Elena. L’impulso al ribaltamento diventa strutturale e così la tragedia, che semplice tragedia non è, sfocia nel dramma farsesco: alla metà dello spettacolo si assiste ad un cambio di tono che vira dall’epico e lirico al comico; dal dramma di un’eroina del ciclo troiano si passa alla commedia degli equivoci. Le prove di recitazione di Laura Marinoni e Sax Nicosia, nei ruoli rispettivamente di Elena e Menelao, come pure di Simonetta Cartia e Giancarlo Judica Cordiglia nei ruoli degli egiziani Teonoe e Teoclimeno, riescono nella difficile impresa di conferire ora spessore e concretezza ora distacco e forte simbolismo. A completare e supportare il testo euripideo, non solo la visionaria e pregnante idea registica di Livermore, ma anche il lavoro sulle scene (Marco Branciamore), sui costumi (dalle paillettes da drag queen agli abiti su modello settecentesco, di Gianluca Falaschi) e sulla musica (Andrea Chenna). Il perfetto ingranaggio tra parti recitate e musica, parti audio e video registrate, scenografia galleggiante (dalla poltrona all’arpa, dal relitto della nave all’obelisco rovesciato) tradiscono la frequentazione da parte di Livermore delle regie liriche: lo spettacolo è opera d’arte totale, dalla magia affabulatoria della logica sofistica del testo, alla maestria di interpreti e artisti.

Ph. Ballarino, Centaro.

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