Daniela Matronola
Visto all'Auditorium di Roma

Sipario Baretti

Marco Solari e Alessandra Vanzi riscoprono il grande critico settecentesco Giuseppe Baretti e lo rendono protagonista di uno spettacolo da non perdere. Inseguendo la vita, le illusioni e le rabbie del celebre polemista

Prima presso il Palazzo Mediceo di Seravezza (Lucca), poi presso il Teatro Studio Gianni Borgna all’Auditorium Parco della Musica di Roma, è andato in scena lo spettacolo Un Caos Di RobaOmaggio a un grande letterato del ’700 europeo, Giuseppe Baretti, manifestazione promossa dal Comitato Nazionale per le Celebrazioni del Tricentenario della nascita di Giuseppe Baretti (Torino, 1709 – Londra, 1789) istituito dal MiBAC su proposta del CISESG (Centro Internazionale di Studi Europei Sirio Giannini d’intesa con Comune di Seravezza). Madrina la critica Daniela Marcheschi.

Nei libri di testo di letteratura italiana forse ormai Giuseppe Baretti non appare neppure più in indice: fin quando è comparso, è stato liquidato dagli autori con poche righe in cui peraltro “il Baretti” (lo scrittore settecentesco, non la rivista di Gobetti) era descritto di corsa con un compendio di luoghi comuni fioriti attorno alla sua figura proprio in ragione della scarsa attenzione a lui dedicata dai compilatori dei manuali destinati agli studenti delle superiori – messo in un grande contenitore in cui spiccano i nomi di Goldoni o di Alfieri.

Com’è facile depotenziare un autore quando, trattandolo, lo si minimizza e lo si spedisce nel dimenticatoio, peggio, ce lo si lascia scivolare per incuria.

Parliamo di Giuseppe Baretti, vissuto nel Settecento, morto in Inghilterra (dove viveva ormai da più di vent’anni) nell’anno della Rivoluzione Francese che portò al suo coronamento pratico un percorso filosofico e sociologico presto tradito nei fatti. Visse in quel secolo dei Lumi che, come è stato precisato, fu un secolo piuttosto buio, di poca luce pratica.

Baretti forse non era un uomo simpatico. O meglio, lo era, ma era anche intrattabile, e avere a che fare con lui era questione spinosa. Perché non risparmiava strali, era puntiglioso sulla correttezza linguistica della prosa come dell’eloquio, forse banalmente era troppo bravo, e facile alla polemica, da cui non si ritirava mai, anche se spesso aveva il buon gusto e l’innato umorismo di ridursi, assottigliare se stesso, ridere anche di sé, lasciar perdere, senza mai in realtà mollare veramente l’osso. Un “prodotto” emblematico di questo suo spirito pericoloso perché irriducibilmente indipendente fu La frusta letteraria, un quindicinale che ebbe vita breve, anche perché la rivista era interamente costruita due volte al mese da Baretti in persona e poi i giudizi critici che Baretti vi riversava erano talmente netti che, benché fossero documentati e attendibili, perlopiù indiscutibili, destavano rabbia, reazioni dure.

Come facciamo a sapere tutto questo? Eravamo lì, con lui, in quei momenti, suoi coevi?

In un certo senso sì. Una pièce molto gustosa e intelligente ha supplito con la magia del teatro (e quindi, dopotutto, con il trucco, chiamiamolo così, del romanzamento) ai molti vuoti della biografia letteraria di Giuseppe Baretti, grazie alla ricostruzione precisa ed elaborata da presso dal regista e attore Marco Solari. Come spiega lui stesso, ha tratto gli undici quadri di Un Caos Di Roba dalla lettura tenace e profonda dell’ampia serie di scritti del Baretti. Su questa base, Marco Solari ha letteralmente “tessuto” questa che, con understatement pari all’umiltà (o meglio alla noncuranza) dello stesso Baretti che ne è protagonista, viene definita solo come una “lettura drammatizzata”. Ma in questa vera e propria pièce, che ha nella struttura i pregi del canovaccio (che sono del teatro) e i vantaggi del montaggio a mosaico (che sono del medio lungometraggio – dura ‘solo’ un’ora e mezza, i film ormai, lo sapete, durano almeno 2 ore), spiccano gli interpreti, che hanno vere virtù camaleontiche, sono attori robusti nel disegnare personaggi a tutto tondo.

Alessandra Vanzi interpreta le diverse figure femminili che hanno ruotato attorno a Baretti.

Due, fondamentalmente: la domestica che spolvera lo studio e la casa, inondati di carte, cioè ricettacoli di polvere oltre che teatri di confusione e disordine; e Mrs Hester Thrale, presso cui Baretti abita lungamente, e con cui ha una relazione, finita burrascosamente soprattutto a causa del matrimonio di costei con un cantante italiano, certo Piozzi. Da quel momento, Baretti si ingegnerà a scrivere lettere su di lei ai suoi corrispondenti nei diversi Paesi europei per screditarla senza pietà, apostrofandola con termini pesantissimi.

Lo stesso Marco Solari compare sulla scena in diversi sipari con Baretti e con la controparte femminile, come se i due se lo palleggiassero in una serie di conversazioni argute, in cui tuttavia il più metafisico (in senso inglese) dei tre resta sempre Baretti in persona. Il climax di queste triangolazioni è raggiunto nel quadro, cioè nella scena, #11, Musica e Scacchi, dove Baretti perde la sua partita che sta per la partita dell’esistenza.

Giuseppe Baretti è interpretato da Guidarello Pontani che rende in modo eccelso il carattere dell’arguto letterato del fine linguista dell’uomo sensibile e vendicativo. Con adesione esemplare (dopotutto ottenuta semplicemente calcandosi in testa una parrucca, inforcando degli occhialini, sedendo alle sudate e molte carte, calzando una giubba), Pontani dà corpo, voce, motteggi, risolini, brevi birignao, a un Baretti che nella sua fase più felice imbraccia materialmente una frusta e la lascia schioccare idealmente sulle schiene di poveri destinatari che talvolta hanno anche nomi importanti. Come Voltaire, colpevole ai suoi occhi di scrivere giudizi critici severi sugli autori italiani senza averli potuti leggere in originale poiché non conosceva l’italiano. Ecco questa è una delle qualità più significative del Baretti letterato e critico: aver viaggiato per l’Europa, e aver imparato alcune lingue europee – il francese lo spagnolo l’inglese, e aver cercato, componendo anche manuali e testi a ciò destinati, di insegnare l’italiano, ad esempio a Esteruccia, figlia di Mrs Hester Thrale – offrendo peraltro un modello didattico interessante, l’idea di far imparare l’italiano memorizzando i proverbi popolari, che è un livello avanzato: nel metodo di insegnamento della lingua inglese come seconda lingua, definiamo l’apprendimento ottenuto con questa pratica ‘intermediate’, cioè già di un grado rudimentale di “autonomia”.

Appena al secondo quadro, quindi già subito, Baretti è abbandonato su una poltrona, forse morto, o forse solo addormentato, mentre Solari e Vanzi se lo palleggiano tra giudizi e frasi tranchant, elencando ciò che di Baretti pensavano i suoi contemporanei o immediati posteri. Chi erano, chi furono i suoi contemporanei e a lungo conterranei?

Ricordiamo che Baretti lasciò l’Italia perché, come dichiara lui stesso a un certo punto, il suo Paese gli stava stretto, soprattutto non gli dava da vivere grazie alla scrittura, non gli dava neppure a momenti di che sopravvivere. Sembra di sentire uno scrittore di oggi. Un Paese che dà l’asfissia e sfrutta il lavoro intellettuale prevedendo di sottopagarlo, restringendo così la libertà dei letterati ridotti alla fame, all’impossibilità di campare della propria letteratura.

Cos’é cambiato da allora? NIENTE! Tutto uguale. Lo stesso disprezzo. La stessa tirchieria.

Baretti va a vivere in Inghilterra, dove invece è ben accolto e riesce a campare di letteratura. Fu amico di Joshua Reynolds, che lo ritrasse in un famoso quadro. Gli fu collega, ma (viene da dire anche) mentore, benché fossero perfetti coetanei, Samuel J. Johnson, il padre (come è noto) della critica letteraria, come genere e scrittura. Ecco, Baretti fu soprattutto questo: un franco critico letterario (che suona quasi come ‘franco tiratore’), come il suo amico Dr. Johnson, e come lui fu linguista e lessicografo, perché valutare un testo implica partire dal suo tessuto linguistico, dalla ‘texture’ o tessitura della scrittura, con spirito autentico e di verità. Tutto ciò che dovesse ostare a una simile disposizione dell’animo del critico mandava in bestia Baretti mentre scalfiva molto meno Dr Johnson più avvezzo con spirito britannico a un certo annoiato distacco.

Tornando a Un Caos Di Roba per finire vorrei sottolineare un dettaglio della messincena che trovo geniale non perché tenti a tutti i costi di attualizzare il testo e il personaggio, ma, del tutto al contrario, perché prova a indicare la contemporaneità di Baretti: è il commento musicale, diverso per ogni scena – il pubblico rimbalza tra quartetti d’archi e seguidillas, fanfare e adagi, da un lato, e i Beatles di Sgt Pepper, Ravel e John Cage, dall’altra, in una tessitura (di nuovo) che è contrappunto e moquette, cioè l’audio naturale di ciascun quadro.

Più che un omaggio, questa lettura drammatizzata è un monumento a Giuseppe Baretti, alla sua inconcepibile e inalienabile contemporaneità, e alla sua incancellabile storicità.

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