Pier Mario Fasanotti
A proposito di “Storie nere in stanze d’analisi”

Romanzo sul lettino

Marcello F. Turno racconta una storia di inconscio e omicidi nella Roma elegante distesa sul divano di Freud. Una novità di genere, dove l'analisi delle "anime" si mescola a quella degli indizi e delle prove

È il primo romanzo giallo psicoanalitico italiano. Intendiamoci: dietro ogni personaggio di un racconto poliziesco (quando è buono) ci sono motivazioni psicologiche, più o meno evidenziate. In questa sede invece parliamo di un testo in cui i personaggi sono veri e propri psicoanalisti. E come possono delinquere. Si tratta dell’opera di Marcello F. Turno, ovviamente psichiatra, con ampia e variegata esperienza ospedaliera, autore di Storie nere in stanze d’analisi (Alpes editore, 141 pagine, 13 euro).

Tutto si snoda sotto la lente d’ingrandimento dell’inconscio sia dei pazienti sia degli analisti. La narrazione è precisa (scientificamente) ma non ridondante e nemmeno barocca. Qui di seguito uno spezzone di trama: operazione dovuta, visto il genere letterario che chi legge non deve conoscere in toto. La cosiddetta fiction emerge integra, senza quelle mediazioni culturali che non siano prettamente necessarie. Le rivelazioni contengono intuizioni di grande effetto. È inevitabile ricordare quanto scrisse Freud: «So che vi sono molti medici che vorranno leggere un caso clinico di questo genere non già come contributo alla psicopatologia delle nevrosi, ma come un Roman à clef destinato al loro divertimento». Aggiungerei che nel caso di Turno, il lettore può trarre indicazioni essenziali e, perché no, anche insegnamenti su certe dinamiche dell’io.

Lo psicoanalista Brando è un tipo meticoloso, che compie gli stessi gesti quotidiani da circa venticinque anni. “Opera” in un villino romano dei primi Novecento, con doppio ingresso/uscita. Il suo strumento di lavoro è la voce. La potenza del logos, insomma. Il suo studio non offre vistose occasioni di distrazione per il paziente, «in pieno ossequio della famosa “astinenza“ di cui Sigmund Freud non si era mai stancato di predicare». Quindi, una poltrona e il famoso lettino. È qui ovviamente che si sdraia il paziente Mario S., il quale, annota l’autore, «si sente rapito in un pastoso gorgo di emozioni». Capita sempre, appena varcata la soglia. Inevitabile che ricordi la disperazione che lo aveva spinto in quella camera. Una disperazione mescolata all’impaccio di raccontare a un estraneo le problematiche che intralciavano, dolorosamente, il suo quotidiano. Gli è capitato anche di piangere, lui che si sentiva «di essere un burattino senza fili», spinto a controllare qualsiasi cosa. Gli veniva da gridare allo psicoanalista, quasi sempre silente oppure no ma solo a brevi tratti, la sua pretesa di condurre una vita come tutti, ossia normale. E questo capitava nelle quattro sedute la settimana, come da «contratto psicoanalitico» che aveva accettato. Tra i racconti snocciolati dal lettino comparve quello di una ragazza conosciuta in libreria. Mario le si era avvicinato chiedendole se le servisse un consiglio. Lei aveva ricambiato cordialmente il suo sguardo. Scrive Marcello Turno: «Lo aveva guardato come solo le donne sanno guardare, senza farsene accorgere, e aveva deciso che poteva farlo entrare nella sua sfera emozionale. Poi aveva accettato i consigli libreschi di Mario S.».

I due si erano rivisti. Era nato un interesse reciproco, velocemente trasformato «in un amore appassionato quanto furtivo». Come se fosse uscito da un castello incantato, Mario S. annulla in un certo senso quel che credeva, e sperava fosse amore. Lo racconta all’analista. Inevitabile. Non senza avvertire un doloroso disturbo. Che pensa il dottor Brando del forte disagio del suo paziente? «Prova ancora timore a credere che questa storia sia vera e definitiva e prima di pronunciare il nome della ragazza vuole essere sicuro della stabilità della relazione o forse vuole essere certo di poter controllare la relazione. Per proteggersi dai suoi timori usa le stesse modalità onnipotenti di quando era bambino, fa scomparire con la forza del pensiero quello che non piace, ostacolando magicamente il suo terrore di castrazione». Questa terribile ansia è legata al rifiuto di Mario S. di pronunciare il nome della donna». Come sa bene chi ha affrontato sedute psicoanalitiche, cala come un’accetta la fatidica frase: «Il suo tempo è finito». È in congedo.

Successivamente, Mario S. confesserà che la ragazza in questione è stata ammazzata con un colpo di pistola. Racconta dettagli che possono scagionarlo e rivela il nome del suo analista. La polizia indaga e interroga anche lo psicoanalista. Gli inquirenti, in questo racconto come in altri, pongono ovviamente domande sul paziente. In ogni caso s’accorgono del fascino dell’interrogato, per certi versi una figura misteriosa, una sorta di loro collega salvo il fatto che Brando non indaga sui fatti bensì sull’anima di chi si adagia sul lettino. E mai riusciranno a ipotizzare il suo coinvolgimento “vero” nel delitto. Sì, perché l’analista, approfittando di un particolare stato mentale del paziente, riesce a uscire dalla seconda porta. Per fare che cosa. Uccidere. Lascia qualche piccola traccia, ma ognuna è abilmente spiegata dal diretto interessato.

In altri episodi è sempre il terapeuta a immischiarsi in oscure trame criminali. Dinanzi a una paziente che afferma di non sapere cosa raccontare. L’analista «le diceva qualcosa, spesso banale, ma era sufficiente ad aprire la porta del suo inconscio. Sapeva che non doveva rispondere, sarebbe stato pericoloso. Così come indurla a costituirsi. Seduta terminata. I due si alzano. «Va bene. Vada pure se lo crede opportuno». Per la prima volta la paziente gli rivolge la seguente domanda: «È sposato, dottore?». L’autore annota: «Il dottore non rispose, in una frazione di secondo pensò alla moglie e ai suoi due figli. Si sentì disturbato da quell’intrusione e strinse gli occhi come a volersi sforzare a guardare oltre quella domanda. Per tutta risposta abbozzò appena un sorriso senza significato. Forse non lo avrebbe mai saputo, ma a volte un sorriso senza significato può salvare la vita».

L’ultima parte del libro di Marcello Turno, a mio avviso la meno affascinante, riguarda un tempo futuro nel quale la vecchia e classica indagine freudiana è vista dalle autorità come sovversiva. Gli indomiti nostalgici si muovono nella Roma dei sotterranei. Pochi sono quelli frequentabili all’aperto. I testi classici della psicoanalisi sono quasi introvabili, si rischia la vita a scovarli e tenerli in mano. C’è gente che segue corsi accelerati di lingua tedesca pur di leggere quel che trova di Freud e di altri maestri dell’inconscio.

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