Roberto Verrastro
A proposito di Matti Friedman

Spia di quale paese?

Matti Friedman racconta la storia di Isaac Shoshan, arabo di religione ebrea, in Israele dal 1942. Isaac è la spia protagonista, nella vita e nel romanzo, di una storia di paesi che non esistono, di conflitti atavici, di attentati e amori contrastati. "Spie di nessun paese" vale al suo autore il Natan Book Award 2018

Dal suo appartamento al settimo piano di un palazzo di Bat Yam, città costiera a sud di Tel Aviv, Isaac Shoshan osservava Israele, che vide nascere da ragazzo. Isaac era un adolescente ebreo senza un soldo quando giunse per la prima volta a Tel Aviv nel 1942, per vendere peperoni in un mercato ortofrutticolo, in compenso parlava benissimo l’arabo, essendo nato il 19 aprile del 1924 ad Aleppo, in Siria. Isaac era pertanto destinato a cambiare mestiere: da venditore ambulante di peperoni sarebbe diventato una spia perfetta. Al servizio di nessun Paese. Il libro che racconta la sua storia, pubblicato negli Stati Uniti, in Canada e in Francia, si intitola infatti Spies of No Country (Algonquin Books, 248 pag., 25,76 euro, ebook 13,07 euro). L’autore è il giornalista israelo-canadese Matti Friedman, sedendosi tra il febbraio del 2011 e il luglio del 2016 al tavolo della cucina dell’appartamento di Isaac, l’unico ancora vivente dei protagonisti di un passato meno lontano di quanto appare. «Una delle mie conversazioni con Isaac non si è svolta in cucina, ma in un centro commerciale del suo quartiere, dove molta della popolazione ha le sue radici nel mondo islamico, come Isaac, e come metà degli ebrei in Israele… un Israele non visibile nel modo in cui il Paese è solitamente descritto», nota Friedman nella prefazione. Il volume, vincitore del Natan Book Award 2018, un premio di prepubblicazione da 25mila dollari assegnato con la supervisione del Jewish Book Council, rivela come, alle origini dello Stato di Israele, quattro precursori del Mossad pagarono un paradossale biglietto d’ingresso: diventare identici al nemico mentre aspiravano a essere i nuovi ebrei plasmati dall’immaginario del movimento sionista, che era nato in Europa ignorando i mizrahim, gli ebrei del mondo arabo.

A metà gennaio del 1948, un certo Yussef el-Hamed, un elegante venticinquenne incravattato, si aggirava con una valigia per le strade di Haifa, che era il principale porto di una Palestina prossima a uscire dal controllo britannico insediatosi in seguito alla prima guerra mondiale. La guerra civile tra arabi ed ebrei era iniziata nemmeno due mesi prima, il 30 novembre del 1947, il giorno dopo che a New York la risoluzione 181 approvata alle Nazioni Unite aveva previsto, al termine del Mandato Britannico per la Palestina, la sua divisione in due Stati, uno per gli ebrei e uno per gli arabi. Questi ultimi vi si opposero. Ma quando Yussef apparve a Haifa, non c’era uno Stato chiamato Israele, né pareva certo che ce ne sarebbe stato uno. La polizia e i soldati britannici continuavano a circolare. «C’erano state ondate di violenza in precedenza» ricorda Friedman, «ma ora era arrivata la collisione decisiva. Il risultato sarebbe stato una catastrofe: questo sembrava chiaro. Ma non era ancora chiaro per chi».

Un giovane si avvicinò a Yussef fermo su un marciapiede per chiedergli da dove venisse. «Da Al-Quds» rispose Yussef, ovvero «da Gerusalemme», detto in un arabo impeccabile. Il giovane si allontanò insospettito. Yussef salì su un volo per Beirut, da dove per un mese avrebbe spedito lettere in arabo alla casella postale 2200 di Haifa, indirizzate «al mio amico Isma’il». Alcune lettere rimasero senza risposta, e a febbraio Yussef tornò in Palestina. Si diresse a Tel Aviv. Mentre era seduto su una panchina in un parco, due uomini sbucati dal nulla afferrarono Yussef scaraventandolo in un’auto, dove gli puntarono una pistola per convincerlo a lasciarsi bendare. Per fargli perdere il senso dell’orientamento, l’auto seguì un percorso di un’ora e mezza prima di fermarsi nei pressi della spiaggia, al 123 della Hayarkon Street, la via in cui si trova oggi lo Sheraton Hotel. Yussef fu sbendato in uno stanzone pieno di armi nascoste negli armadi, di fronte a un uomo che conosceva: un comandante del Palmach, l’unità d’élite dell’Haganah, l’esercito clandestino dell’insediamento ebraico nella Palestina britannica.

Yussef non era caduto in mano al nemico: il musulmano palestinese Yussef el-Hamed di Gerusalemme era in realtà il venticinquenne ebreo Gamliel Cohen, nato a Damasco, in Siria. Gamliel faceva parte della Sezione Araba, l’unità di intelligence che usava come sedi di addestramento i kibbutz, le comunità agricole della pianura costiera, dove gli agenti segreti erano accampati tra tende e tettoi, intorno a torri che contenevano le cisterne d’acqua. Il nucleo della sezione era costituito da Isaac Shoshan insieme a Gamliel, Yakuba e Havakuk Cohen (i tre Cohen non erano imparentati, si tratta di un cognome ebraico molto comune). A ognuno di loro l’ebreo iracheno Shimon Somekh, noto con il nome arabo Sam’an, stava insegnando l’arte di essere come un arabo: non solo parlare come lui, ma anche vestirsi come lui e, soprattutto, conoscere i cinque pilastri dell’Islam, padroneggiando preghiere e rituali.

In quel febbraio del 1948 Isaac Shoshan, nei panni di Abdul Karim, perlustrando il settore arabo di Haifa nella Nazareth Street, scoprì che, nell’autofficina Abu Sham, addobbata come un’ambulanza dell’esercito britannico, era parcheggiato un camion bomba che sarebbe esploso il sabato sera davanti a un cinema affollato nel settore ebraico della città. Isaac non aveva mai guidato un’auto, nei vicoli di Aleppo della sua infanzia perfino la bicicletta era un lusso. Il suo istruttore fu il ventitreenne Yakuba Cohen, alias Jamil, dei tre Cohen quello nato davvero a Gerusalemme (secondo fonti israeliane, dal 1974 operò in missione triennale in Italia). In un giorno Isaac imparò a innestare le marce, in un altro a prendere confidenza con il volante. Isaac e Yakuba avevano bisogno di molti preservativi, forniti da un farmacista attonito, ingenuamente convinto che servissero all’uso più prevedibile. Dopo prove ed errori, il 28 febbraio l’autobomba guidata da Yakuba era pronta: un tubo collegava una fiala di acido solforico dal sedile anteriore a un preservativo contenente una miscela di cloruro di potassio e zucchero, nascosto nel bagagliaio con tre quintali di esplosivo. L’auto aveva un faro distrutto, il pretesto per lasciarla in riparazione. Una volta rotta la fiala, l’acido solforico divorò in meno di dieci minuti il tubo fino al preservativo, il tempo necessario a Yakuba per uscire dall’autofficina e infilarsi nell’auto di Isaac in transito, fuggendo prima del boato.

A Beirut, Gamliel Cohen aveva preparato il terreno. Il 14 maggio 1948, alla vigilia del ritiro delle truppe britanniche dalla Palestina, David Ben Gurion proclamò la nascita dello Stato di Israele. Poche settimane prima, era cominciato l’esodo di migliaia di arabi palestinesi verso i Paesi limitrofi. A bordo di un autobus che da Haifa ne trasportava alcuni in Libano, su ordine del Palmach si erano infiltrati Isaac e il ventenne Havakuk Cohen, alias Ibrahim, un ebreo yemenita, l’esperto di trasmissioni radio codificate con il quartier generale di Tel Aviv. Da Beirut, i due avrebbero riferito sui movimenti dei rifugiati palestinesi, gestendo un chiosco che vendeva panini, giornali e materiali scolastici. Isaac avviò una relazione con una cristiana, la bella Georgette, scontrandosi con la diffidenza del fratello della donna. Un libanes,e con cui Isaac aveva fatto amicizia, pensò che ad Abdul Karim avrebbe fatto piacere incontrare qualcuno che venisse da Haifa come lui. Era un palestinese sulla settantina, che viveva in un campo profughi. Quest’ultimo raccontò ad Abdul Karim che aveva due figli, ma erano morti in un attentato all’autofficina in cui lavoravano. Abdul Karim non si scompose:«Dio vendicherà la loro morte».

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