Pier Mario Fasanotti
A proposito di “La felicità di far libri”

La sirena Sciascia

Sellerio celebra l'attività editoriale di Leonardo Sciascia, la sua passione per libri da riscoprire, il suo talento nel preparare le copertine e le quarte. Non ci fu mai stacco netto tra la sua vis polemica e il suo lavoro redazionale

Quando Leonardo Sciascia faceva l’insegnante in una scuola elementare, scrisse a un coetaneo alcune lettere. In una delle quali asseriva: «Certo nessuno è felice: tranne i prosperosi imbecilli. L’infelicità è una condizione necessaria all’intelligenza». Aggiungeva però, in questo breve carteggio (De Plante editore), di essere «sereno». Il grande scrittore siciliano era garbatissimo, mite, silenzioso, ma non offriva segni espliciti di serenità dietro il fumo dell’immancabile sigaretta, non parliamo di allegrezza anche se il riso non gli era estraneo. Mi è venuta in mente la sua frase giovanile, leggendo, per i tipi di Sellerio, La felicità di far libri (Leonardo Sciascia scrittore ed editore), 334 pagine, 16 euro. Il fatto che scriveva in continuazione, ampliando la sua poderosa cultura con letture di ogni tipo, ci fa pensare che la sua penna era un formidabile antidepressivo (timidezza e riservatezza lo potevano far sembrare cupo).

Ho avuto la fortuna di incontrare Sciascia a casa sua, a Racalmuto (dove nacque nel ’21): mi ha fatto moderatissime confidenze ma non è mai stato silente. Quando si mette a scrivere? Chiesi. «D’estate, approfittando di quel che rimugino in altri periodi dell’anno». I suoi libri furono certamente, per lui, fonte di gioia che io definirei “artigianale“ (la vanità o la mondanità non erano nelle sue corde: l’urgenza per lui era costruire un testo e capire la realtà). Ma non erano solo quelle, le sue occupazioni. Sono da comprendere il lavoro di consulenza con l’editrice palermitana, la profonda amicizia con Evira Sellerio (donna di straordinari acume e grazia) e il lavoro editoriale che si risolveva nello scoprire (o scegliere) autori di grande talento. Con o senza firma, redigeva le quarte di copertina. Lavoro essenziale: il lettore la legge e gli può capitare di comprare quel libro, e non altri, perché magicamente attratto da dieci o venti righe. Come da sirene fatte parole. Di grande precisione e quanto mai da intenti pubblicitari (di solito sono falsi apparati, piccoli murales approssimativi, di smaccato entusiasmo).

Salvatore Silvano Nigro, nella prefazione, spiega alla perfezione il lavoro redazionale di Sciascia. Giustamente ricorda che «se il ilbro è un supporto per copertina, come diceva Manganelli, è perché la copertina non è una geometria amena e di capriccio: un contenitore di sola qualità decorativa. Nei suoi spazi, l’editore e il lettore si danno il buongiorno». Guai all’intimidazione pubblicitaria, guai allo strillonaggio del titolo, guai all’invito chiassoso (ma oggi è cosa che rimane vera? Domanda difficile, vista la tendenza seguita dal marketing sfacciato e ripetitivo, alla faccia del più garbato, e a volte più efficace, passaparola?). Borges, il penetrante e sarcastico argentino, scriveva: «Nella triste maggioranza dei casi il risvolto di copertina confina con l’oratoria del dopotavola o con i panegirici funebri e indulge a iperboli irresponsabili che la letteratura ammette come convenzione del genere; ma quando gli astri sono propizi, il risvolto non è una forma subalterna di brindisi, è una specie collaterale della critica».

Non so se lo scrittore di Racalmuto conoscesse questo effluvio di intelligenza (ma suppongo di sì), fatto sta che Sciascia, redazionalmente, faceva critica. Non solo: suggeriva a Elvira Sellerio autori di pregio anche se non sulla cresta dell’onda di quel periodo. A me confidò che durante i suoi numerosi viaggi in treno, prima di salire sul vagone sbirciava le edicole e alla fine sceglieva libri gialli, in genere Mondadori, alcuni semi-nascosti o comunque impolverati. Se qualcuno attirava la sua attenzione, lo proponeva, come ristampa, a Elvira. Alcuni gioielli polizieschi li ha scovati così. Oltretutto, era appassionato di polizieschi, anzi ne fece un elogio-esempio di letteratura («Il giallo è una sorta di gabbia entro la quale si possono dire tantissime cose, compresa la radiografia del mondo moderno»).

Gli piaceva definirsi «amatore di stampe». E suggeriva disegni o foto da mettere in copertina. Quando uscì Il grafico della febbre di Friederich Glauser (ingiustamente poco ricordato), Sciascia scrisse: «Per circa mezzo secolo il lettore si è trovato nel circolo vizioso (veramente e vanamente vizioso) del best-seller: il cui libro la cui precipua qualità stava nel fatto che era dato per molto letto e che era dunque indispensabile leggere. Oggi siamo al long-seller: al libro che ritorna, al libro che si riscopre, al libro che ha vinto il silenzio e l’oblio».

E infatti Sciascia propose alla casa editrice di Palermo collane e libri votati al recupero della memoria, parola oggi più volte invocata ma spesso vanamente o solo in occasioni di ricorrenze e giorni dedicati a specifici uomini o avvenimenti, con conseguente, e confusionaria, miscela emotiva (quando c’è, s’intende). Gli interessava il fatto «mal noto, poco noto e ignoto». Era consapevole che l’edizione di un libro fosse un atto di critica. Guardava attraverso il mondo e il mondo attraverso i libri. Non ci fu mai stacco netto tra la sua vis polemica e il suo lavoro redazionale. Un esempio: quando Sciascia propone la pubblicazione di Dostojevskij, ricorda il manzoniano «Carneade chi era costui?», la sua dotta curiosità va alla domanda del protagonista dello scrittore russo (testo in veste comica) «Fomà Fomic Chi era costui?». Il siciliano intravvede un’anticipazione, o premonizione, dello stalinismo. Con il senno del poi, Sciascia avvertiva il pericolo quanto generò in Italia l’intolleranza.

In un certo senso è obbligatorio riconoscere a Sciascia il copywrtiter di tutte le parti non d’autore del libro. Un’aggiunta, un suggerimento, mai un inutile e vano sbandierare vere e presunte qualità del testo. E non gli mancava una intelligente ma anche velenosa ironia. Alla vigilia dell’uscita del suo L’affaire Moro, il narratore di Racalmuto ricorda che Eugenio Scalfari scrisse: «Sciascia è un grande scrittore. Sono convinto che quando leggeremo il testo del suo pamphlet ne resteremo affascinati e commossi». E Indro Montanelli: «Il libro non è ancora uscito, e sulle qualità letterarie si può giurare ad occhi chiusi…». Annota Sciascia: «Ma è possibile che i due illustri giornalisti – e quanti altri si sono occupati di questo libro senza averlo letto, si sbaglino: e cioè che il libro non affascini, non commuova, non abbia qualità letterarie; e che sia soltanto una nuda e dura ricerca della nuda e dura verità». In queste righe tutto il suo rigore, ma anche tutta la sua amara ironia.

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