Lidia Lombardi
A proposito de "Il traditore”

L’Italia di Buscetta

Il film di Marco Bellocchio su Tommaso Buscetta è un grande ritratto del nostro Paese e di un pezzo drammatico della sua storia: quello in cui Stato e criminalità si confondono. Ma il protagonista (uno straordinario Pierfrancesco Favino) non è mai né un eroe né un infame

Non c’era modo migliore, ieri, per ricordare la morte di Giovanni Falcone, schiantato dalle bombe della mafia ventisette anni fa sulla strada che da Palermo conduce all’aeroporto. A Cannes, sulla mondana Croisette, si è proiettato Il Traditore, il film di Marco Bellocchio in concorso per la Palma d’Oro. E contemporaneamente la pellicola è uscita in 350 copie nelle sale italiane. Un atto molto più politico, di sincero impegno civile, rispetto alle cerimonie commemorative, soprattutto quella tenutasi nell’aula bunker dell’Ucciardone, alla quale non ha partecipato il sindaco Leoluca Orlando – c’erano il premier Conte e il presidente della Camera Fico – in polemica con il ministro dell’Interno Salvini. Un colpo di teatro inutile e fuorviante in una giornata in cui le istituzioni dovevano mostrarsi unite, scevre da polemiche strumentali.

Che cosa racconta infatti Il traditore? La vita di Tommaso Buscetta; meglio, la tranche della sua vita a partire dagli anni Ottanta e fino alla morte. La vita in fuga della prima gola profonda della mafia, un racconto lungo 487 pagine, raccolto da Falcone in un’istruttoria esemplare, che produsse 366 mandati di cattura ad altrettanti boss di Cosa Nostra, tutti condannati. Di fatto, la decapitazione della Piovra siciliana. Tommaso Buscetta è morto nel Duemila, a 72 anni, nel suo esilio negli Usa pagato dallo Stato italiano. È morto nel suo letto, come aveva fortissimamente voluto. Era diventato collaboratore di giustizia per questo motivo, e per proteggere la sua famiglia. Appresso si è portato molti misteri, primo fra tutti come andò veramente il “caso Andreotti”, che egli accusò “per deduzione”, come gli fece notare nel dibattimento l’avvocato Fausto Coppi, difensore del democristiano. Ma aver ricostruito vent’anni di storia italiana che già si offusca e che anzi, quando torna a galla – l’abbiamo visto all’Ucciardone – si piega comunque alle tattiche meschine, è un gran merito di Bellocchio, e di Beppe Caschetto, che ha prodotto il film distribuito da 01.

L’ottantenne regista di Piacenza si è ancora una volta speso per un cinema civile. Ha ripercorso una fetta di storia italiana (come in Vincere e in Buongiorno, notte). Ma insieme al quadro storico – l’epoca delle stragi, col corollario delle legislazioni speciali, l’ombra della trattativa Stato-Mafia, il processo Andreotti – egli disegna il personaggio, qui appunto Tommaso Buscetta, mentre là erano stati Mussolini e Aldo Moro. E lo fa mettendo di fronte allo spettatore cronaca e interiorità del protagonista. Del quale si narra a partire da un banchetto tra boss per la festa di Santa Rosalia che sembra voler chiudere la guerra tra palermitani e corleonesi. Non è così, il traffico d’eroina aizza gli uomini d’onore, Riina vuole tutto il potere, anche quello di Bontade e Badalamenti, l’asticella delle vendette si alza fino all’eliminazione di donne e bambini. Buscetta fiuta l’aria e se ne va a Rio, con la nuova moglie brasiliana e i piccoli. Lascia in Sicilia i due figli maggiori, li affida a Pippo Calò, che invece li farà fuori. Ma il Brasile non basta al “boss dei due mondi”. La Polizia Federale Brasiliana lo arresta, lo tortura. Lui non parla. Rapida è l’estradizione, che non riesce a evitare neanche tentando il suicidio con la stricnina. Lo prende in consegna Gianni De Gennaro, il più fedele collaboratore del giudice Giovanni Falcone. Al primo incontro, a Roma, più o meno le stesse parole pronunciate nell’Ucciardone a inizio processo, dopo aver confermato tutte le dichiarazioni rese in istruttoria: «Sono stato e resto un uomo d’onore, quello spirito non è cambiato, sono loro che hanno tradito Cosa Nostra. Per questo, signor Presidente, io non mi considero un pentito». Intorno, dalle gabbie, ululano e gesticolano feroci guidati da Luciano Liggio. Solo una smorfia mostra Calò. Sono sequenze magistrali per misura e forza, altrettanto quanto quelle del confronto tra Buscetta e Calò e della deposizione di Totuccio Contorno.

Qui si esaltano le interpretazioni dei protagonisti: Pierfrancesco Favino è un Buscetta privo di sbavature, col guizzo negli occhi, i gesti pacati, i lampi d’ironia, e lo smarrimento, quando in un altro processo, quello ad Andreotti, l’avvocato Coppi mostra una rivista con le sue foto in crociera a spese dello Stato; Luigi Lo Cascio è Contorno, nervoso, strafottente, incapace di parlare se non in stretto siciliano, restituito rotondo e vero dalla presa in diretta del sonoro, un altro fiore all’occhiello del film; Calò ha il volto di un enigmatico Fabrizio Ferracane (nella foto), bocca cucita metaforicamente, mentre un altro picciotto, nella gabbia, la bocca se la cuce veramente, e la mostra sanguinante alla Corte, in un primo piano teatrale e forte quanto quelli dei boss che sputano davanti alla tv quando il tiggì rimanda la foto di Falcone e annuncia la strage di Capaci. Il giudice – un Fausto Russo Alesi teso, mai indulgente verso il pentito, e però convinto nel riconoscergli dignità – non c’è più, e Buscetta, screditato durante il processo Andreotti, deve prendere definitivamente la strada dell’esilio. Muore a Miami, dove la sera scruta l’orizzonte dal terrazzo impugnando il fucile, sempre in guardia contro i nemici, che gli hanno ucciso anche il fratello, un cognato, un nipote, il genero. Lo hanno tormentato gli incubi dei figli strozzati e il rimorso di averli lasciati in Sicilia. Lo ha accompagna la nostalgia della sua terra, del “gelato a Mondello”. Bellocchio non ne fa né un infame né un eroe. Lo sfaccetta nelle sue doppiezze, come tanti in primo piano nelle vicende italiane.

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