Lidia Lombardi
Una biografia di Paola Benadusi Marzocca

Il Piccolomini nato duca e morto bandito

L’autrice ripropone con nuovi inediti l’irresistibile discesa di Alfonso, pronipote di Enea Silvio-papa Pio II, ricostruendone la vita. Nemico del pontefice Gregorio XIII, al capo di un esercito di 500 uomini compì scorribande in tutto il centro Italia, arrivando a minacciare anche Roma

Bene ha fatto Paola Benadusi Marzocca, storica e divulgatrice di letteratura per ragazzi, a ripubblicare il ritratto di un “dannato” protagonista del Cinquecento ampliandolo con un nuovo capitolo e ulteriori spunti critici usciti dai faldoni di manoscritti dell’Archivio Storico di Firenze. Vi trovò, giovane ricercatrice che nell’introduzione si cela dietro il nome di Teresa, un corpus di lettere firmate in calce da Alfonso Piccolomini. Del quale narra con vivide pennellate “vita e morte” sullo sfondo di un corrusco e depravato XVI secolo. Cambia il titolo dell’opera pubblicata due anni fa, Benadusi, e va dritta all’identikit del suo protagonista, Il duca bandito (la prima versione si chiamava Lo scandalo del potere, edito da Tav, come la presente). Duca bandito, dunque, quell’impavido nato ad Acquapendente, nell’alto Lazio, signore di Montemarciano e Caposervoli, pronipote di Enea Silvio Piccolomini, il dottissimo Papa Pio II che creò – affidandosi all’estro urbanistico di Rossellino – Pienza, la città ideale del Rinascimento.

L’autrice, toscana doc, ha sceverato inediti documenti e testi del XVI secolo per ricostruire la figura di Alfonso, il condottiero “maledetto” che cavalcava con i «lunghi capelli neri al vento». Si trasformò da feudatario discendente di papa a bandito feroce, pur con una propria scala valoriale. E fu protagonista di avvenimenti da romanzo di cappa e spada e insieme cartina di tornasole di un mutamento epocale: il passaggio dal feudalesimo – con le sue regole talvolta controverse ma capaci di tenere le briglie al popolo e di far convivere i potenti – alla affermazione di un’aristocrazia senza scrupoli e di una Chiesa accentratrice e corrotta. Erano gli stessi Papi a smantellare l’ordine feudale: ne nasceva la rivolta della povera gente, che non trovava più riparo all’ombra dei manieri medievali, ma anche quella dei blasonati, impoveriti e arpionati da Roma. Avvenne proprio questo ad Alfonso Piccolomini: Gregorio XIII pretendeva di rimpinguare le casse pontificie con tasse e requisizioni di castelli. Il nostro “controeroe” , di lignaggio alto ma di risorse economiche inadeguate, reagisce, aiutato dal temperamento fiero. E imbocca una china che in poco più di dieci anni lo porterà al patibolo, stanco, stremato dalla malaria contratta nelle scorribande in tutto il centro Italia, sofferente anche nello spirito, per il rimorso dei tanti corpi massacrati con la sua truppa. Eppure quando Benadusi mette Alfonso in scena, egli sta sposando in quel di Pesaro Ippolita Pico della Mirandola, figlia naturale del Cardinale Ippolito de’ Medici, bella, colta e ricca.

È appunto il versante degli affetti (e della passione amorosa) che l’autrice qui approfondisce. Si sbozza la figura di Ippolita, bellezza «languida esaltata da una massa di capelli castani e ondulati e da labbra piene e armoniose». Una nobildonna dal temperamento dolce e severo, opposto alla audacia rapace del Duca. Che la lasciò sola per lunghi periodi, impegnato nelle sue bellicose imprese, sicuro della sua fedeltà ed egli stesso leale, perché «la guerra era la sua forsennata passione». Ma l’amore d’Ippolita alla fine si affievolisce in quel vuoto maritale che neanche la figlioletta Vittoria riesce a riempire. Si lega al cugino senese di Alfonso, il timido Silvio Piccolomini. Dal quale si distacca al ritorno del marito. Sentendo forte la tristezza per il matrimonio fallito e l’amante perduto. Anche Alfonso però è travolto alcuni anni dopo da un amore. Accade a Parigi alla fine del 1584, accolto nella reggia di Caterina de’ Medici e del figlio, il re Enrico III. Conosce qui, durante un ballo, la marchesina Clotilde, nipote del duca di Joyeuse. Colpo di fulmine, «primo e unico amore della vita travagliata di Alfonso», osserva Benadusi. La liaison non dura molto, il Duca perde la fiducia dei regnanti, le sue intemperanze lo costringono a rientrare in Italia. È datata all’agosto 1585 l’ultima lettera alla nobildonna: «Mia dolce signora, mia amata Clotilde… durante la lunga marcia che sto conducendo fuori dai confini francesi, lontano da voi, non ho avuto pace…».

È un ulteriore sconforto che si aggiunge alle amarezze cominciate con l’ira nei suoi confronti da parte di Gregorio XIII, che gli aveva confiscato il ducato. Erano gli anni a cavallo tra il 1570 e il 1580. «Il papa voleva umiliarlo, ma egli non avrebbe ceduto: in preda a tutte le furie lo malediceva giurando che si sarebbe vendicato», drammatizza Benadusi. Ecco ricostruita come in un film la spedizione punitiva che il duca compie a Montalboddo, l’odierna Ostra, nelle Marche, terra dei Gabuzi, che lo avevano denunciato al pontefice. È il discrimine che fa di Alfonso un bandito. Arriverà a comandare 500 uomini e a minacciare Roma. Ma a farlo impiccare, nel 1591, a trentatre anni, sarà il suo amico di un tempo, Ferdinando I de’ Medici, ex cardinale. Alfonso sa troppo di lui, dei soldi persi al gioco, delle donne accolte nell’alcova. Lo scandalo del potere travolge Piccolomini, nato gentiluomo e morto infame.

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