Lidia Lombardi
A Roma e a Milano

Il volto del ‘900

Doppio omaggio a Giuliana Traverso, decana della fotografia italiana. Nei suoi scatti, nei suoi “corpo a corpo” con la realtà, c’è l’espressione profonda di un tempo lungo, pieno di sogni e disillusioni

Giuliana Traverso ha più di ottant’anni e la curiosità di una ventenne. Ha girato tutto il mondo ma la sua Genova ne è l’ombelico. Ha ammirato e amato gli uomini (entrambi fotografi i due mariti, Franz Franzi punta di diamante del Neorealismo, e Lanfranco Colombo, anche celebre gallerista) però per le donne si è spesa con generosità. Ha saldo l’universo degli affetti familiari (la mamma, il padre giudice, la figlia Lia) però allarga le braccia per contenere quanti ha incontrato il suo obiettivo, dalla Polaroid alla Canon. Giuliana Traverso è la decana delle fotografe italiane e questo 2019 è un anno speciale. Ha appena esposto a Roma, nel polisemantico e alternativo “Spazio Cerere”, l’ex pastificio nel cuore di San Lorenzo, ingresso di sampietrini, colonne di ghisa, scenario di archeologia industriale. A Milano, memore della sua presenza all’Expo, è presente fino al 30 giugno nell’ambito del Photofestival. Ed è da poco uscito Io sono qui, un’autobiografia di sensazioni e ricordi ritmata dalle foto.

Ma nel volume ci sono anche gli autoritratti bianco e nero di Roberta, Silvia, Giulia, Marinella, Rita, le sue allieve. E alla vernice dell’esposizione romana – L’eclettismo come stile il titolo, a cura della Fondazione 3M – erano arrivate da Genova, una accompagnata dalla anziana mamma, altre “ragazze” alle quali la Traverso ha insegnato a scattare. Perché questo è uno dei punti clou della biografia umana e professionale: aver fondato nel 1968 “Donna Fotografa”, una scuola aperta solo all’universo femminile, a quelle che volevano imparare in un campo mezzo secolo fa riservato agli uomini. Una rivoluzione perché «anche in questo settore negli anni Sessanta, importanti dal punto di vista del progresso sociale, le donne erano ancora tenute ai margini», ricorda Traverso. E continua: «Avevano una minore autonomia economica e la fotografia era una pratica costosa, avevano poco tempo a disposizione, il compito di essere mogli e madri era spesso a tempo pieno… Con la scuola volevo insegnare a fare buone fotografie ma soprattutto volevo che le donne capissero quanto possono essere brave nel fare. Dovevo aiutarle a far nascere in loro l’autostima». Una maieutica con taglio sociale, psicologico, emotivo, più che politico. Niente femminismo da «utero è mio e me lo gestisco io», niente patenti attacchi al capitalismo. Traverso si mantiene lontana dagli stereotipi e dalle manipolazioni ideologiche. Così ha educato a vedere il mondo a tutte, così la sua scuola non è passata di moda. E se doveva in qualche modo “schierarsi” contro i maschi, lo faceva con un po’ di ironia. Ecco allora la sua seconda scuola, nata nel 2003, “Il galateo della fotografia”, riservata agli uomini. Magari si credevano appassionati, ma «parlavano solo di tecnica» e per lei invece fotografia è far emergere il proprio Io. Uno solo, ricorda la fotografa genovese, ha seguito l’intero corso, della durata di tre anni. «Era un avvocato, li ha passati tutti guardandomi negli occhi, di sbieco, con la testa poggiata sul braccio sinistro, e non ha mai parlato. Poi mi ha detto che stava controllando se stesso… Sono sincera, gli uomini mi annoiavano».

Lei, invece, pur di documentare è arrivata anche a una lotta con un artista di strada, un vietnamita incontrato a Parigi, davanti al Beaubourg. Una sequenza scattata dalla figlia Lia documenta la Traverso, in k-way rosso come una macchia di sangue sul grigio del selciato, inginocchiata, quasi sdraiata, e lui che all’improvviso la rovescia, la stropiccia, la scavalca, ci si siede sopra. “L’invisibile corpo a corpo fotografico”, il titolo della serie di immagini.

Il “corpo a corpo” lei lo cominciò con i ritratti, che hanno aperto la prima parte della mostra allo Spazio Cerere e che occupano un capitolo dell’autobiografia. Ecco il primo: Ornella Vanoni, il volto scolpito, lo sguardo abbassato, il pollice sulle labbra. Nanni Loy ha la faccia quasi tutta in ombra che esce dal maglione a collo alto, Ruggero Orlando fissa e sfida l’obiettivo, Renzo Piano invece vuole schivarlo con l’alt della mano. Lando Buzzanca, Marina Berti sono alcuni degli altri, celebrities affiancate ai ragazzi del Sessantotto, casual ma mai arrabbiati, feroci. La nuova fase, anni Ottanta, è quella de “La gente e io”, i reportage sociali: il Carnevale a Milano ridotto a una bambina in maschera che saltella in cortile, scorci di Parigi, un’edicola che affianca la copertina del rotocalco con la foto di papa Wojtyla ai sederi femminili nelle riviste porno. Il progetto “L’udienza è tolta” – memore del padre giudice – individua gli stop più o meno drammatici inflitti dalla vita: gli aborti in Cina, un mattatoio dove il corpo appeso del bovino è enorme “scultura”, la nevicata a Genova, i moncherini di una mendicante seduta sul marciapiede, in primo piano quanto la gamba di una passante con i tacchi alti. “Fantasmi e vivi” fissa nell’obiettivo sullo sfondo del giardino i ragazzi di una comunità di recupero coperti da lenzuoli, invisibili sì, ingabbiati in uno schema, ma saltano e allargano le braccia che il telo bianco fa diventare ali. Nel viaggio in Cina il mondo contadino è ritratto con il grandangolo e la didascalia recita “Il paesino cinese tra il fango e la sublime volontà”. A Orvieto invece, è il 1985, fa sistemare in piazza un tendone dal fondale nero e ciascuno che arriva vi inscena il proprio mestiere, sacrestano, maestra d’asilo, venditore di polli, costruttore di burattini. E in una bottega nella quale si realizzano manichini seghe e scalpelli sono pari a strumenti di tortura. Tutte immagini in bianco e nero, il contrasto si esalta in quelle scattate in studio con un soggetto speciale: l’attore cileno Francisco Copello che insegna l’arte del corpo. Il suo Traverso lo estrae dal buio totale in contorsioni e smorfie allucinate. Al bianco e nero la fotografa rinuncia solo se è lei a fare il colore: ecco la tecnica del viraggio, ecco le tinte “imposte” alla diapositiva. Un viaggio interiore anche se il soggetto è all’esterno: quei panni stesi al vento con sprazzi di azzurro che squarciano il grigio, quella Genova dai rossi e blu elettrici, visione mentale. Spiega: «Quando entro in uno spazio, qualsiasi spazio, i miei occhi si trasformano e nel cervello si formano migliaia di idee. Se mi rendo conto che sono passate dal cuore so di essere sulla strada giusta, la strada della mia mente di insegnante, cosa che ancora oggi mi porta a chiedermi se io sia più fotografa o maestra».

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