Adriano Napoli
“La funesta docilità” di Salvatore Nigro

Manzoni in giallo

Ancora una volta lo scrittore siciliano sa sottrarre l’autore dei “Promessi Sposi” alla polverosa pedanteria scolastica per restituircelo integro e vitale. In questo libro lo fa ricreando, attraverso la ricerca storico-filologica, un Affaire beffardo, fatale e molto appassionante

Salvatore S. Nigro è una delle intelligenze critiche più luminose del nostro tempo, oltre che un raffinato pasticheur di lingua e stile (… quel Barocco inconfondibile che si profila in chiaroscuro anche dai risvolti di copertina dei romanzi di Camilleri). Confesso di aver sempre provato, da lettore fedele, un’invidia reverente nei riguardi della sua mente colorata, immune da ogni vernice accademica, e per quel talento di giungere al cuore di un libro e del suo autore da lontano, seguendo percorsi obliqui, coniugando sapientemente il giallo, l’iconografia come elementi compartecipi di un unico cosmo sapienziale. Partendo dal dettaglio di una tabacchiera effigiata in un celebre ritratto manzoniano dello Hayez, Nigro ha saputo restituirci (nel saggio La tabacchiera di don Lisander, Einaudi, 1996) un Manzoni integro e vitale, sottraendolo alla rigidità statuaria in cui lo avevano confinato due secoli di pedanteria professorale e irredimibile noia studentesca.

In questo nuovo saggio, ancora sul Manzoni, La funesta docilità (Sellerio), egli riprende la tecnica del giallo intrecciandovi gli ingredienti della ricerca storico- filologica e dell’Affaire. Tutto origina da un inciampo beffardo e fatale – non dissimile dal malincontro del curato don Abbondio nel capitolo iniziale dei Promessi Sposi – su uno dei gradini della Chiesa di San Fedele, che condurrà il Manzoni in un breve volgere di stagioni dell’anno 1873 al decadimento fisico e mentale, fino alla morte. Nell’istante vorticoso della caduta, lo spazio e il tempo precipitando, affacciano la mente del grande scrittore su un abisso in cui si convitano la Storia e le vicende familiari, la polvere e gli altari; il musetto imbronciato di una bimba che gioca con bambole vestite da suora e il massacro di un inerme ministro delle Finanze immolato da una folla imbestialita agli ideali ambigui di una Rivoluzione “giusta”, che tutto giustifica.

Nell’istante che introduce alla fine e al mistero, Manzoni rivive il tempo circolare del suo romanzo, che non si conclude con un lieto fine ma reinizia con le pagine macabre e purulente della Colonna Infame; che è il tempo della vicenda umana, di ieri oggi e domani, costretta nell’imperativo di “fare il torto o patirlo”. Lo spazio di San Fedele, nel cuore di Milano, diventa il teatro di una memoria incessante, una mappa mentale e letteraria per lo scrittore morente e per i più acuti e “illegali” dei suoi lettori e interpreti. Prendendo l’abbrivo dalla più sofferta e meditata delle Cronachette (Il capitolo XIII, Il Manzoni e il linciaggio del Prina) di Leonardo Sciascia – genio familiare e primo interlocutore di questo libro – dialogando con libri e immagini, Nigro percorre con l’arte paziente di un filatore la trama di una vicenda che intreccia, senza fermarsi alla facciata del paternalismo consolatorio della vulgata manzonista tradizionale, la ossimorica contraddittorietà dell’ingiustizia umana (la “funesta docilità” emblematizzata fin dal titolo di questo libro) e quella divina; il sopruso e il rimorso che abitano la Storia e postulano l’intervento provvidente, nella Storia, di una Grazia, che sono l’autentica sostanza del pensiero manzoniano e del mondo che emerge dalle sue pagine così stantie in apparenza, e così tanto tragicamente attuali.

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