Roberto Verrastro
A proposito di “Tinderbox”

Polveriera americana

Robert W. Fieseler ricostruisce nei minimi dettagli una terribile strage di matrice omofoba consumata a New Orleans nel 1973. Un delitto terribile che l'America puritana cercò di nascondere

Nel 2016, il 1973 sembrava trascorso da un secolo, ma l’omofobia era sempre in agguato. Il 12 giugno di tre anni fa, il 29enne Omar Mateen, un musulmano devoto nato negli Stati Uniti in una famiglia di origine afgana, aprì il fuoco al Pulse, un nightclub gay di Orlando, in Florida, uccidendo 49 persone e ferendone 53, prima di essere a sua volta falciato da otto proiettili sparati dalla polizia. Il più grave massacro di omosessuali nella storia degli Stati Uniti, che fece dichiarare al presidente Barack Obama: «Per così tante persone che sono lesbiche, gay, bisessuali o transgender, il Pulse Nightclub è sempre stato un rifugio, un posto per ballare e cantare, e soprattutto per essere chi sei veramente… domenica mattina, quel rifugio è stato violato nel peggior modo immaginabile». Una simile dichiarazione non giunse invece da Richard Nixon nel 1973, come ricorda Robert W. Fieseler nell’introduzione del suo volume Tinderbox (Liveright, 343 pag., 20,16 euro), candidato all’Edgar Award, il premio intitolato a Edgar Allan Poe che sarà assegnato il prossimo 25 aprile al Grand Hyatt Hotel di New York dalla Mystery Writers of America, l’associazione dei giallisti statunitensi.

Fieseler, formatosi a New York alla scuola di giornalismo della Columbia University ed egli stesso omosessuale, ricostruisce minuziosamente la strage avvenuta il 24 giugno del 1973 all’Up Stairs Lounge di New Orleans, un locale gay nel quartiere francese della città della Louisiana, in cui un incendio doloso uccise 31 uomini e una donna che si trovavano al secondo piano dell’edificio, causando inoltre 15 feriti. Carl Rabin, il coroner accorso sulla scena del crimine, barcollava di fronte ai cadaveri ammassati e sfigurati, che vennero identificati solo da gioielli e chiavi di camere d’albergo che avevano addosso. Le vittime morirono per lo più entro i primi sei minuti in cui furono avvolte dal fumo e dalle fiamme: per loro fu impossibile fuggire dalle finestre, sigillate da inferriate ignorate dalle autorità nei precedenti controlli di sicurezza. La strage, diversamente da quella di Orlando, fu circondata negli Stati Uniti da un muro di omertà, che Fieseler ha infranto con un’attenzione ai dettagli che rivelano quanto l’omosessualità fosse all’epoca innominabile: le reti televisive locali e nazionali dedicarono al rogo servizi brevissimi, «in cui i sopravvissuti erano intervistati con le telecamere che li inquadravano di spalle, per il timore dei giornalisti di legittimare lo stile di vita gay e per quello dei loro interlocutori di essere riconosciuti».

La tinderbox, la polveriera a cui allude il titolo del libro, era quella che la società americana temeva che fosse innescata dall’identità delle vittime: più di un terzo erano veterani delle forze armate, un altro terzo erano cristiani battezzati e praticanti, e almeno sette di loro erano stati sposati con donne prima di scoprirsi omosessuali, di conseguenza all’Up Stairs Lounge morirono anche sei padri di famiglia, «cosa che sfidava gli stereotipi dominanti», osserva Fieseler. E tre corpi talmente carbonizzati da non poter essere identificati, furono seppelliti in forma anonima, senza lapidi: per i loro parenti erano semplicemente «scomparsi», piuttosto che morti proprio in quel locale, inaugurato la notte di Halloween del 1970. Douglas «Buddy» Rasmussen, il suo gestore, che aveva un passato nell’Aeronautica, e Adam Fontenot, che parlava sei lingue fluentemente e da quattro anni era il suo compagno, erano entrambi poco più che trentenni. Domenica 24 giugno 1973 giunsero insieme al 604 della Iberville Street, l’indirizzo dell’Up Stairs Lounge, situato in un edificio risalente agli anni Settanta dell’Ottocento. Il locale, di proprietà di Phil Esteve, era dominato dal colore rosso degli arredi, dall’odore di fumo di sigaretta, da una pista da ballo, da una gigantografia di Burt Reynolds nudo e da Jocko, un cane che era la mascotte del posto.

New Orleans aveva allora 600mila abitanti, la popolazione omosessuale era stimata in 75mila persone. Nel 1970, il reverendo David Solomon partecipò alla fondazione del Gay Liberation Front della città dotandolo di un giornale, il Sunflower, con l’aiuto di una cofondatrice nonché sponsor finanziario, Lynn Miller. Nel 1971, Solomon ebbe l’idea di organizzare una comunità cristiana gay-friendly, la Metropolitan Community Church. La finalità di quest’ultima, scrisse il 17 aprile di quell’anno il Times-Picayune, il principale quotidiano di New Orleans, era di «soddisfare i bisogni spirituali di quelli finora trascurati». Il termine «omosessuali» suonava provocatorio sulla stampa dell’epoca, evidenzia Fieseler, e nello stesso linguaggio colloquiale la parola «gay» non era ancora in uso, sostituita in modi criptici ed esilaranti: negli Stati Uniti essi erano talvolta chiamati, in un italiano americanizzato, i «tutti fruttis». Phil Esteve mise gratuitamente a disposizione della nuova comunità religiosa gli spazi dell’Up Stairs Lounge, dove di domenica non era raro imbattersi in gente che pregava.

E la sera di quella domenica di giugno del 1973, tra i numerosi avventori del locale c’era Roger Dale Nunez, di Abbeville, una cittadina della Louisiana.

Appena diciassettenne, nel giugno del 1964 Nunez si era arruolato con il consenso della madre, e fino al 1967 lavorò come dattilografo nell’esercito, soggiornando anche a Francoforte, una destinazione più fortunata del Vietnam che attendeva migliaia di giovani americani. Pur non trovandosi in un’area di guerra, Nunez rimase ferito in circostanze mai chiarite. Fieseler ipotizza che in realtà in Germania fosse venuta a galla l’omosessualità del ragazzo, rispedito negli Stati Uniti e congedato in Georgia con una medaglia e un premio di buona condotta, che in seguito non gli impedirono di essere arrestato due volte, nel dicembre del 1972 e nell’aprile del 1973, per acquisti con carte di credito rubate. La sera del 24 giugno Nunez, che era ubriaco e si atteggiava a guardone con commenti salaci, ricevette un pugno in pieno volto da Michael Scarborough, il compagno di Glenn Green, un esponente della Metropolitan Community Church che era stato anch’egli congedato dalla Marina per oscuri «motivi medici», ovvero per essere stato sorpreso a fare sesso con un uomo.

Buddy Rasmussen trascinò Nunez fuori dall’Up Stairs Lounge. Il ragazzo urlava: «Brucerò questo posto fino alle fondamenta». Nella Iberville Street, Nunez comprò una lattina da sette once di Ronsonol, un liquido per accendini che, in assenza di testimoni, fu poi cosparso sul lato sinistro del secondo gradino della scala che conduceva all’ingresso del locale: il legno vecchio di oltre cent’anni lo assorbì benissimo, così come la moquette rossa che vi scorreva sopra. All’inferno che invase l’Up Stairs Lounge quando al secondo piano aprirono la porta, Rasmussen scampò con una ventina di fortunati fiondandosi verso un’uscita secondaria, mentre il suo compagno Adam Fontenot e Glenn Green furono tra le vittime rimaste imprigionate. Ai poliziotti Rasmussen raccontò il litigio con Roger Dale Nunez, ottenendo solo risposte sprezzanti. Nunez si dileguò tra la folla e morì suicida nel novembre del 1974. All’incendiario che cercava nelle tasche un accendino o un fiammifero per appiccare il fuoco, erano cadute due banconote da dieci dollari, forse il valore attribuito a 32 vite vissute e terminate in una cappa di silenzio.

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