Rosa Salvia
Una nuova raccolta di Pasquale Di Palmo

Dignità per gli ultimi

Per il poeta veneziano, scrivere è trasmettere la storia che ci sta intorno, senza enfasi, ma con semplice lucidità. Così ne “La carità”, c’è spazio per l’unicità dei diversi, veri depositari di «una libertà affidata all’imperfezione, all’asimmetria, alla inadeguatezza, all’irrazionale inteso come qualcosa in più della ragione»

Ogni volta che inizio a leggere un’opera di Pasquale Di Palmo, che sia una raccolta poetica o un saggio critico, mi ritorna in mente una nota citazione di Plinio Il Vecchio: nulla die sine linea. C’è invero un solo mestiere che si sia tenuti a ben fare, ed è quello di uomini, cioè quello di un’integrale rigorosa linea di condotta di fronte alla sacralità dell’esistenza in ogni sua piccola o grande manifestazione. E di ciò Di Palmo è pienamente consapevole. Nessuna dimissione e nessuna enfasi nella sua poesia, ma cruda essenziale lucidità. Scrivere è trasmettere la storia che ci sta intorno la quale non ha altro fine se non quello di sopravvivere alle ideologie, alle tecniche, alle tattiche, ai nuovi e vecchi credenti attraverso una metafisica dell’immanente, sostanzialmente immune da tentazioni simboliche. In questa nuova raccolta poetica La carità (Passigli, 2018, 70 pagine, 12 euro), sulla scia della precedente Trittico del distacco, quel che conta per il poeta, alla maniera di Paul Celan, è provare a dire in versi o attraverso realistici moduli narrativi, qualcosa di singolarmente necessario a sé, la propria angoscia di “salvato”, il palpito soffocato dei diversi, i quali, come osserva Paolo Lagazzi nella prefazione, sono diversi non solo dagli uomini comuni ma dagli altri diversi, «ed è forse per questo, per sottolinearne l’unicità, che Di Palmo ripete alcuni dei loro nomi: Roberto, Mattia, Margherita».

La raccolta che si apre con una bellissima poesia composta da due quartine: “Andremo sotto un cielo di zucchero…”, è divisa in quattro sezioni: “Antica scuola dei battuti” fedele al tema della malattia e del distacco dal padre a cui il poeta si rivolge con infinita tenerezza nel suo dialetto veneziano, lingua che serba in sé la forza orale costitutiva dell’atto poetico, obbediente a un’imperiosa ispirazione interiore, necessitata ad aderire alla materia (“Come xe difissie portarte in giro”, p. 24), (Perché no ti ghe xe più, papà?”, p. 32); “Il colore dominante” che comprende brevi crude prose poetiche; “Inimicarsi il mondo” in cui scorrono figure stravaganti (“Giacometti”, p. 48) che Di Palmo ricorda con sottile bonaria ironia, o mitiche come la “Marylin novantenne” di un originalissimo sonetto (p. 50), nonché sei componimenti epigrammatici dal titolo “Sotto le grandi nuvole di maggio” di cui riporto il secondo: «Ruota di un vasto ingranaggio, / tu stesso devi perderti / sotto le grandi nuvole di maggio, / dissolverti in quel mutilo paesaggio» (p. 56); e infine “La carità” in cui, come in una sorta di galleria familiare, si avvicendano quegli “ultimi” cui il poeta restituisce dignità e ragione d’essere.

In particolare in quest’ultima sezione, la forma eretica di esistenzialismo, alla base della poesia di Di Palmo (così come in Montale), trova un riscontro nell’antinomia posta dalla filosofia contingentista di Boutroux fra determinismo e libertà: dove la libertà è affidata all’imperfezione, all’asimmetria, alla inadeguatezza, all’irrazionale inteso come qualcosa in più della ragione. L’essenzialità di linguaggio inoltre non rinuncia mai all’imperativo della chiarezza e della comunicabilità della poesia. Di Palmo guarda alla maniera secca e incisiva di Ungaretti e “attraversa” molta della poesia del novecento italiano, e non solo, per quella sorta di classicismo sui generis con l’intreccio di termini familiari e letterari, con la sua apertura metrico-stilistica verso la prosa, il non-senso e il vuoto, il grigiore e l’orrore dell’esistenza, con il lavoro sul ritmo e sul suono della scrittura poetica. Di matrice leopardiana sono poi alcune sue modalità poetiche: la lacerazione fra l’orgoglio-rimpianto della propria difficile individualità e il bisogno di immersione nell’esistenza; l’attitudine contemplativa e precisa della natura e dei luoghi (Via Carducci, p. 47); il particolare realismo affidato a figure amate e ricorrenti; infine, la stessa opzione per una poesia di sentimento e riflessione.

Di Palmo, pur nel nome della necessità comunicativa, non dimentica che la poesia è fluida, obliqua, continua, circonfusa di aloni e ombre. La poesia in ogni sua espressione stilistica è canto e incanto in grado di incidere il senso della coscienza, di farlo pulsare all’unisono con le “intermittenze del cuore”, diagramma del tragico corrugarsi di un destino individuale e necessario. Una tragicità, si può concludere, che pare consistere soprattutto nella rappresentazione di un’autoreferenzialità sempre più serrata del segno, in un processo che, al limite, non richiede più un interpretante: un segno che segna sé stesso si potrebbe dire (“La salamandra”, p. 49), insomma “nero imbuto” (“Henry Moore e i tetrarchi”, p. 54) davanti a cui sembra arrestarsi l’inquieta attesa di senso dell’uomo contemporaneo, il quale può ben ripetere con il poeta: «Che posto è questo? Dove porta l’acqua / che travolge, deforma, trascina / la vita come fosse la mia vita, / sottile foglia in bilico sul gorgo?» (“Fotografia di un argine”, p. 55).

Vicino al titolo: una foto di Willy Ronis, Fondamenta nuove, Venezia

 

Facebooktwitterlinkedin