Flavio Fusi
In margine al pamphlet “Roma non perdona”

La tonnara della Rai

Carlo Verdelli - deluso da quella stagione nella quale sembrava di poter cambiare la Rai - ha raccontato la sua lotta contro i mulini a vento. Ma nel corpaccione della tv di stato non c'è solo la (cattiva) politica: c'è anche la dedizione a una professione perduta

«Pensionato Rai». Oltre il vetro del gabbiotto, la ragazza in divisa controlla sul computer e mi porge il passi con un sorriso. Saxa Rubra, periferia nord di Roma: una landa piatta, nuvole di zanzare d’estate, umido nelle ossa d’inverno. Il Tevere scorre nascosto da qualche parte, a volte un gregge di pecore sbandate si riversa nel posteggio dei dipendenti. Tre palme secche, fulminate dal punteruolo rosso e lasciate a intristire per anni, presidiano l’ingresso dalla parte della campagna.

Supero il tornello, faccio un passo e sono a casa: la mia casa, il mio lavoro, il mio piccolo grande mondo per trenta e più anni. Intorno al piazzale di cemento, separate da stente siepi di bosso, ecco le palazzine dei telegiornali. Il bar è come al solito affollato, un ronzio d’alveare filtra oltre la porta a vetri. Tutto è come ieri e come l’altro ieri: giornalisti, tecnici, dirigenti, sfaccendati vari. Una discussione svogliata, una sigaretta, un saluto prima di salire in redazione. Solo le facce sono nuove, qualche antico reduce saluta.

Mi accompagnano, in questa visita fuori porta, le impressioni di un libro appena letto. Carlo Verdelli, attuale direttore di Repubblica, fu il primo e unico “Direttore dell’informazione del Servizio pubblico radiotelevisivo” tra il novembre 2015 e il gennaio 2017. Di questa esperienza breve e fallimentare parla il suo pamphlet, esplicito fin dal titolo: Roma non perdona. Come la politica si è ripresa la Rai.

Le pagine che scorro sono la cronaca di una bruciante sconfitta. Verdelli, chiamato con un manipolo di volenterosi a cambiare («scaravoltare») la Rai dei partiti nella breve e illusoria stagione renziana, fu invece egli stesso scaravoltato; illuso e poi deluso, masticato per bene e infine sputato via come un corpo estraneo. Il suo progetto, un volumone di 470 pagine destinato a «svecchiare la Rai, disinfestarla dai parassiti della politica e proiettarla nel mondo d’oggi», giace dimenticato in qualche polveroso sottoscala di Viale Mazzini.

Viale Mazzini 14, appunto. O meglio, come scrive l’autore, Mazzini. Qui, al settimo piano del palazzone Rai, il riformatore Verdelli aveva il suo ufficio, tra morbide moquettes, legni pregiati, quadri d’autore e segretari ossequiosi («si sieda pure, il direttore lo raggiungerà tra breve…»). Conosco bene il sancta sanctorum del settimo piano, il corridoio dei passi perduti, le lunghe attese, le inutili perorazioni e rassicurazioni. Uscivo da quelle udienze, io semplice inviato del tg3, con un invincibile senso di tristezza e ineluttabilità. Dunque, capisco bene la sofferenza, l’insofferenza, e infine l’ostile indifferenza che confessa l’ex riformatore.

Orsù, allora. Letto il libro, e vòlto uno sguardo circolare al grande piazzale baciato dai primi tepori d’aprile, oso azzardare che ci vorrebbe un Carlo Verdelli proletario, in grado di descrivere con altrettanta amarezza e veemenza il microclima politico professionale e umano della grande tonnara di Saxa Rubra, dove tutto – intendo tutto il prodotto giornalistico della Rai – viene affastellato, impastato, confezionato, e infine lanciato nell’etere.

Ci vorrebbe un Carlo Verdelli proletario per descrivere l’arrogante ignoranza di certi direttori, o vicedirettori o caporedattori, investiti direttamente dal potere dei partiti, intronati e poi disarcionati, premiati e dimenticati, e magari riesumati nel breve volgere delle stagioni politiche nazionali. Per descrivere le carriere minime dettate dal manuale Cencelli dell’informazione, le fulminee ascese e le rovinose cadute di personaggi di cui si è ormai persa memoria, le gelosie delle prime donne, gli agguati e le cordate, i dirigenti impresentabili e i corrispondenti inguardabili. In una parola: la storia minima di Saxa Rubra.

«Stiamo cercando di recuperare dieci anni in dieci mesi», confessava Antonio Campo Dall’Orto, il proconsole mandato a scaravoltare il benevolo mostro che fu di Biagio Agnes e di Ettore Bernabei. Mai proclama fu più azzardato: bastarono al contrario appena dieci mesi al corpaccione della Rai per scrollarsi di dosso la sparuta pattuglia dei riformatori. Del resto l’impresa era disperata: si trattava nientepopodimeno che lanciare in mare aperto una balena spiaggiata gonfia di 13mila dipendenti, 1729 redattori, 10 testate giornalistiche, 13 canali televisivi, 10 canali radio.

La fine è nota. La politica non mollò mai la presa dal malloppo della «più grande azienda culturale del Paese». La Rai, questa Rai, era irriformabile, scrive Carlo Verdelli. Del resto, si parva licet, era irriformabile anche l’Unione Sovietica e se ne dovette rendere conto a sue spese un tipo tosto e determinato come Mikhail Gorbaciov. La perestroika che non aveva funzionato a Mosca, nemmeno si affacciò sulle rive del Tevere. Bandiera bianca, infine: «Qui non reggiamo, stavolta proprio no: dagli appartamenti del presidente all’ufficio più minuscolo del settimo piano, risuonò di bocca in bocca un mormorio di disfatta».

La resa è ingloriosa: una marcia indietro silente, felpata, impercettibile eppure definitiva, come tutte le storie targate Rai. E l’amara cronaca di Verdelli dalla pancia della balena è una discesa agli inferi attraverso gironi di crescente mediocrità. Mediocri tutti, dai politici (il Pd ahimè si distingue), ai dirigenti, ai giornalisti. E ci verrebbe anche da commentare – l’autore non ce ne voglia – che i mediocri non mancavano nemmeno nella cordata dei riformatori mancati. Nei titoli di coda, il destino dei vari personaggi. Molti sono spariti dai radar, altri sono tornati agli antichi mestieri. Verdelli è, oggi, al capezzale di un’altra grande malata dell’informazione: Roma, Viale Cristoforo Colombo, direzione de La Repubblica. In quanto alla nostra Rai, i partiti sovranisti se la sono divorata in pochi mesi. I nuovi padroni sono affamati e non fanno prigionieri. Sugli schermi, impazza il plebeismo cognitivo, l’algoritmo che travolge ogni steccato tra informazione e propaganda. La truppa si adegua, i direttori, salvo qualche periclitante eccezione, timbrano le carte distribuite dai politici al potere. Riformatori, all’orizzonte, non se ne vedono.

Eppure nei corridoi disadorni di Saxa Rubra, negli stanzoni dove si lavora spalla a spalla con lo sguardo alla desolata campagna romana, nella sala riunioni del Tg3 dedicata a Ilaria Alpi, colgo i segni di una antica dignità non spenta. Informare, scrivere, riflettere onestamente e anche onestamente sbagliare, non era questo il nostro mestiere? Per noi che ci crediamo, per i nostri colleghi più giovani che ancora ci riconoscono, sono stati anni fantastici. I migliori anni della nostra vita.

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