Lidia Lombardi
“Giornalisti all’inferno” di Andrea Manzi

Tra Es e cronaca

L’esordio narrativo del fondatore de “La Città”, quotidiano di Salerno. Protagonista un cinquantenne cronista di nera che qualcuno vuole incastrare in un presunto delitto di molti anni prima. Una vicenda che si sviluppa in un mix di generi: il giallo, il noir e la discesa nel “sottosuolo” interiore

È deviante e calzante insieme il titolo dell’esordio in narrativa di Andrea Manzi. Giornalisti all’inferno (Europa Edizioni, 171 pagine, 13,90 euro) evoca immediatamente le sabbie mobili che affogano chi lavora in redazione: quotidiani in bilico, ristrutturazioni, prepensionamenti, licenziamenti, contratti instabili, istituto di previdenza in crisi per diminuzione di iscritti, querele temerarie, intimidazioni (la “capocciata” a Ostia di Roberto Spada all’inviato tv ne è diventata simbolo). Beh, a questo malessere “di categoria” può aver tante volte pensato, soffrendone, Manzi, che è giornalista di lungo corso, tra l’altro redattore capo de “Il Mattino” e vicedirettore del “Roma”, oltre che poeta e autore teatrale. E però non sono queste le bolge che circondano i protagonisti del suo romanzo. Qui l’inferno è quello che tanti cronisti di nera o di giudiziaria incrociano: delitti, perversioni, depistaggi, misteri che restano irrisolti. Ed è inferno quello nel quale scivola il protagonista, Carlo, appunto un giornalista cinquantenne e problematico che si trova kafkianamente a essere imputato di un delitto presunto che dovrebbe essere avvenuto decenni prima, allorché era un giovane alle prese con le prime inchieste.

Lo accusano di aver ucciso Mirella, una ragazza di provincia – provincia del Sud, assolata, dischiusa sul panorama del mare – scomparsa da Villa, immaginario paese che è lo stesso di Carlo. Perché un corpo riemerge sulla collina, scavato da tre individui mascherati da Rambo, in quello che era un cantiere di edilizia residenziale. Forse è Mirella, e reca le impronte di Carlo la pistola sistemata accanto allo scheletro. Si innesta così nella trama il meccanismo delle indagini, svolte anche dall’accusato per trovare il modo di discolparsi. Ma lo fa in due modi: quello tradizionale, cercando prove e testimonianze a suo discarico; e quello peculiare alla sua personalità di uomo fragile psicologicamente, preda di crisi di panico e di propensione al suicidio. Ecco così le altre facce di Giornalisti all’inferno: che in definitiva intreccia, meglio alterna, il giallo psicologico al noir e al poliziesco, per non dire di dimensione sociologica e insieme d’inchiesta, là dove squarcia i meccanismi che regolano i giorni in una piccola città meridionale: la piazza dove tutti si conoscono e sussurrano, il parroco che fa da confidente e si trascina addosso imbarazzanti segreti (come non pensare alla vicenda di Elisa Claps?), la camorra che corrompe i politici e giostra nella ricostruzione post-terremoto dell’Ottanta, il terrorismo degli anni di piombo…

Ma su tanta carne al fuoco (forse troppa) e tanti colpi di scena, come avviene nelle serie televisive, s’impone la dimensione psicologica. Carlo ha passato undici anni sul lettino dello psicanalista ed è nello studio del medico-confessore che ricostruisce, in un ritorno al passato/discesa nel proprio Io, le ore prima dell’acme che ora lo porta a essere indagato. È il suo disagio mentale a fare da fil rouge all’intero romanzo, in una perenne agnizione di se stesso, che diventa anche quella del suo lavoro. Allora non è tanto la soluzione del giallo a impegnare l’autore, quanto la definizione di una verità esistenziale, di Carlo e dei comprimari, a lui accomunati da un più o meno evidente male di vivere. Del resto, a fare chiarezza sul leit motiv, è lo stesso capitolo d’avvio. Un lungo incipit che descrive l’estenuante viaggio in treno di Carlo per raggiungere Villa e il luogo dove qualcuno “vuole incastrarlo”. Un vagone maleodorante, un caldo appiccicoso, un alternarsi di luce o ombra, le gallerie e l’umore del protagonista insieme, preda di un’ennesima crisi di panico. Manzi mostra di conoscere bene l’ansia patologica, forse indulge nella situazione e in attesa del plot vero e proprio il lettore può trovarsi disorientato. Ma altrove la rappresentazione dell’angoscia trova molte pagine felici. Come nell’incubo notturno di Carlo, quel cappello in un catino che d’un colpo diventa montagna in mezzo a un lago, poggiata per di più su una enorme mano che impugna una pistola e che diventa inquietante roccia. Una magia letteraria, in uno stile che sa dosare la cifra surrealistica del Carlo interiore con quella della cronaca senza compiacimenti del Carlo giornalista.

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