Filippo Bozzi
Un libro da rileggere: "Le serenate del Ciclone"

Epica del Padre

Romana Petri, raccontando, con tenero amore filiale il rapporto tra sé e il padre cantante, Mario Petri, entra nei misteri e nelle contraddizioni del mondo dell'opera lirica. Con alcuni mostri sullo sfondo, a cominciare da Riccardo Muti

Romana Petri è una scrittrice di talento e di successo, ma è anche la figlia di Mario Petri, cantante d’Opera e attore di cinema molto popolare tra gli anni ‘50 e ‘60. Nel 2015 è uscito Le serenate del ciclone, il libro in cui l’autrice ha riunito queste due identità e dedicato a suo padre un romanzo-biografia che ne abbraccia l’intera vita, dal 1922 al 1985. Il loro cognome di famiglia in realtà è Pezzetta e il fatto che la scrittrice abbia adottato, decenni dopo, il nome d’arte già scelto dal padre dice già qualcosa su un legame d’amore e su una comunione spirituale, che hanno segnato due vite: quella del genitore e quella della figlia, primogenita adorata e protetta, ma anche amica, complice, a volte antagonista e poi alla fine un po’ mamma del suo babbo.

Tra le tante cose che ci sono in questo libro così voluminoso, 590 pagine senza cadute di tensione, c’è prima di tutto l’amore, un amore smisurato, come smisurata tende ad essere tutta la materia narrata, volontariamente ai limiti dell’iperbole. Il motivo di questo è che Mario Petri era un gigante, enorme di statura, pieno di muscoli, bello e forte come un eroe omerico, con qualcosa di eccessivo anche nel carattere; e allora la vita di un personaggio da poema epico non può che essere smisurata, anche se si svolge nella campagna intorno a Perugia negli anni ’30 o, qualche anno più tardi, nella Roma del dopoguerra.

Omero, il mito, la dimensione epica, segnano la modalità e il tono della narrazione, entrano, in maniera esplicita o sottintesa, di continuo. Epici, giganteschi sono i personaggi buoni di questo libro e le loro gesta, anche quelle quotidiane, sono ammantate di eroismo; i cattivi invece sono piccoli, brutti, meschini d’anima e di corpo. I buoni sono coloro che hanno amato e aiutato Mario, cattivi sono coloro che gli hanno fatto del male.

Da questo punto di vista la Petri sceglie di schierarsi come un alfiere al fianco del suo generale; certo è una narratrice lucida, capace di vedere e mostrare i limiti, gli errori e le tante debolezze dell’uomo apparentemente invincibile. Ma quando si tratta di parteggiare, di mettere in campo il cuore, torna ad essere la bambina che compare sulla copertina del libro e che guarda in macchina sorridendo, fiera di stare mano nella mano con quel babbo statuario in costume di scena.

Personaggio amatissimo è il nonno Adamo, detto il Damino, ancora più erculeo di Mario stesso, semplice e saggio, sempre cavalleresco e leale; sarà lui a indovinare il talento di Mario per il canto, a capire che poteva e doveva fare quel mestiere invece di finire contadino o venditore di carbone. Poi c’è il Kid, il più grande amico, che non aveva mai fatto un minuto di sport in vita sua, eppure sembrava fatto d’acciaio; sosia di Charles Bronson, parco di parole, sincero, compagno di Mario in scazzottate, ovviamente epiche, anche in due contro venti.

I cattivi sono pochi, ma pericolosi, micidiali addirittura; nei loro confronti l’autrice consuma una vendetta da tragedia greca; Paolo Isotta, che ha molto amato questo libro, suggerisce il parallelo con Elettra, vendicatrice del defunto padre Agamennone. Giulietta Simionato, il più famoso mezzosoprano della sua epoca, che aveva voluto e sedotto il giovanissimo Mario, mandando momentaneamente a monte il suo fidanzamento e il suo matrimonio, è nella narrazione una povera donna, vecchia, piccola, tozza, con il viso di Macario, una figura triste e malevola. Dopo l’inevitabile allontanamento, gli fece terra bruciata in tutti i teatri d’Europa.

Riccardo Muti, che lo diresse in un mitico Macbeth al Maggio Musicale Fiorentino nel 1975 e, dopo avergli promesso altri titoli e incisioni discografiche, lo abbandonò spaventato da un successo che aveva eclissato il suo, è un nano in un maxi cappotto, un traditore con gli occhi ravvicinati da Iago e la mascella sempre contratta nello sforzo. Da quell’evento, che poteva rappresentare un ultimo clamoroso rilancio della carriera, che invece si arenò dopo le recite fiorentine, Petri rimase così addolorato da non volerne sapere più niente del palcoscenico e scivolò in un malinconico pensionamento, fino alla morte prematura.

Diverso è il caso del padre di Mario, che non è un vero cattivo, ma uno cui la natura non ha dato il coraggio; bello di viso e di corpo, violento con la moglie e i figli e debole con gli altri, ubriacone e donnaiolo, non è capace di esprimere affetto, sporadicamente ci prova, ma è come se ne avesse paura. Mario non lo odia, ma fatica a volergli bene.

Intorno a questi personaggi e a molti altri si snoda la storia di un ragazzo nato in campagna vicino a Perugia, e destinato a diventare un grande cantante lirico e un attore cinematografico popolare. Sul suo cammino però ci sono mille ostacoli e avventure: una giovinezza di scazzottate e scapicolli, l’esperienza di cantante di serenate a pagamento, finita male perché tutte le corteggiate si innamorano di lui, la carriera da pugile per mantenersi a Roma come studente di canto, il debutto e il successo, la battuta d’arresto dovuta all’ostracismo della Simionato, la canzone e il cinema, il ritorno sulle scene come baritono e le delusioni di fine carriera; e poi in mezzo a tutto questo gli amori giovanili, cinquantasei automobili una più lussuosa dell’altra, l’amicizia con attori e registi conosciuti a Cinecittà, il matrimonio felice e la paternità. La nascita di Romana rappresenta, oltre che un evento capitale nella vita di Mario, uno snodo narrativo e un cambio di passo stilistico e tematico in un libro che si può nettamente dividere in due parti.

La prima parte è decisamente in bianco e nero, ha le tinte di un film girato su pellicola dura, con tanto contrasto e poche sfumature; i personaggi, i luoghi, la stessa lingua, il dialetto perugino nei dialoghi e un italiano scarno, paratattico e gergale, provengono da un mondo arcaico, genuino e ruvido. Poi l’azione si sposta in città, in una casa moderna e comoda e negli alberghi e teatri di tutto il mondo, e la pellicola diventa a colori, dalla terza si passa alla prima persona e l’io-narrante adesso è l’autrice stessa che parla dei fatti della sua vita, di ricordi che le appartengono.

L’attività artistica impegna Petri in maniera discontinua, lui ha molto tempo libero da dedicare alla famiglia e i due, padre e figlia, diventano inseparabili: un babbo un po’ fanciullo, molto fisico e una bambina per forza di cose un po’ maschiaccio, con tutto quello sport e quei racconti di scazzottate.

Poi arriva il momento giusto per Omero: Mario, che con il suo diploma di maestro elementare era a suo modo un uomo colto, buon latinista e lettore vorace, inizia il racconto quotidiano della guerra di Troia; giorno dopo giorno Petri e la figlia viaggiano con l’immaginazione per i campi di battaglia, seguono le gesta degli eroi, lo strazio delle mogli, i capricci delle dee e la volontà inappellabile del fato; sono storie commoventi ed esaltanti. Romana ha pietà per i vinti, Mario invece si immedesima negli eroi, insegna alla figlia la bellezza che c’è nel furore e nella vendetta, il fascino funereo della battaglia che lascia sul campo “sangue a secchiate” e “morti a tazze di lupini”, come dicono tra di loro con aria di intesa. Ma non condividono solo la passione per la poesia epica, vanno anche al cinema a vedere film western, in particolare quelli dove c’è Charles Bronson, perché è un bravo attore e perché è uguale preciso al Kid.

Gli anni passano e la politica li mette su due fronti diversi: Petri senza particolare passione ha sempre votato PLI, Romana invece è comunista. Lui le fa gli occhiacci, lei alza le spalle, ogni tanto c’è qualche sfuriata, ma le discussioni finiscono per lo più a risate. A sessantatré anni Mario Petri muore all’improvviso a causa della rottura di un aneurisma all’aorta addominale, che era lì, ignorato e silente da chissà quanto tempo.

Romana Petri ci regala la storia d’amore tra lei e suo padre e insieme il ritratto inevitabilmente sfaccettato di un uomo dagli aspetti bizzarri e contraddittori, dalla personalità ricca, ribelle alle catalogazioni e per questo tanto interessante; inoltre fornisce ai lettori un contributo prezioso alla comprensione del valore di Mario Petri cantante d’Opera, fisicamente e caratterialmente agli antipodi rispetto ai cantanti stilisti e ai perfezionisti della nota, eppure cantante sottile, interprete acuto e fraseggiatore magistrale, che per istinto musicale e intuito teatrale – ai quali bisogna aggiungere una prestanza fisica fuori dal comune – raggiungeva vette ben superiori a quelle consentite al suo mezzo vocale, che era affascinante, ma non perfetto e che non avrebbe potuto competere con le ugole d’oro del tempo per sola virtù di suono. Da un corpo e da uno sguardo che esprimevano furore e irruenza sgorgava una voce da artista raffinato, capace di coniugare stilizzazione e umanità, forma e pathos, cosa che capita solo a pochi grandi.

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