Marco Corsi
Il Ceppo in tre parole /2

Ritmo pensiero figure

Proseguono gli autoritratti dei finalisti al Selezione Ceppo Poesia 2019. È il turno di Marco Corsi, in gara nella sezione Under 35 con la sua raccolta “Pronomi personali”. Partita da un centro, un'immagine, «un nucleo dal quale si irradiano le molteplici possibilità del senso»…

Ritmo – Sul concetto di ritmo si sono espressi, in maniera diversa, alcuni dei poeti che più ho amato e frequentato durante il mio percorso di ricerca. Ritmo (dal greco rhytmòs, affine al verbo rheo: “scorrere”) non significa solo metrica, ma piuttosto un fluire, ora placido ora rapinoso, di suoni e di senso. Come l’acqua scava la roccia, così le parole creano un solco profondo nelle intenzioni della scrittura, fino a rivelare sulla pagina un’armonia precisa. Oltre al ritmo scandito oralmente dalle parole, infatti, c’è anche quello che, nero su bianco, rappresenta graficamente un ben congegnato meccanismo di parole. Diceva la poetessa Amelia Rosselli nel suo celebre scritto Spazi metrici del 1962: «Una problematica della forma poetica è stata per me sempre connessa a quella più strettamente musicale, e non ho mai in realtà scisso le due discipline, considerando la sillaba non solo come nesso ortografico ma anche come suono, e il periodo non solo un costrutto grammaticale ma anche un sistema». Ma possiamo tranquillamente risalire alle origini con Nietzsche: da filosofo egli definisce il ritmo come «quel potere che dà un ordine nuovo a tutti gli atomi della proposizione, impone la scelta delle parole e conferisce un nuovo colore al pensiero» (La gaia scienza). Un esempio classico è il “Né” che apre uno dei sonetti più celebri di Foscolo, A Zacinto, segnalando in prima battuta il significato profondo di una privazione già interamente vissuta: «Né più mai toccherò le sacre sponde…». Ma possono esserci anche improvvisi vuoti d’aria, che risucchiano nel gorgo di un verso. O forse solo inciampi che rafforzano la dote inquieta dell’espressività. Tuttavia, il gorgo può divenire totale e lapidario come nella chiusa di Stella variabile di Vittorio Sereni: «sospiro abbandonandomi a lei / in sogno con lei precipitando già», dove l’iterazione del “lei” gioca una piccola suspense prima dell’infinita vertigine. E la voce non trova scampo.

Pensiero – Che la poesia debba ricondursi a un pensiero ci è chiaro fin dai banchi della scuola, o almeno da quando incrociamo il nome di Leopardi. Crescendo accade poi di immergersi nella lettura di altri diari o epistolari che rivelano il radicamento profondo di una poesia o di una situazione nella mente di chi la scrive. Non solo filosofia, dunque, ma “materia pensante” o “pensiero poetante”, per ricorrere a definizioni che sembrano subito precipitare in un vuoto sordo e irreparabile. Basta riaprire i diari di Silvia Plath e le sue tremendissime lettere alla madre, oppure scorrere l’epistolario a tre voci tra Rilke, Pasternak e Marina Cvetaeva per accorgersi di come la materia viva della vita debba subire vari processi di morfologizzazione – in senso geologico, tellurico e pastoso – prima di cristallizzarsi in un verso. Il pensiero, insieme al ritmo, dà forma alla poesia: questo è l’insegnamento che ci offrono tra l’altro poeti molto vicini a noi, amici e maestri dei nostri giorni, come Franco Buffoni, che mi ha permesso di pubblicare – nella collana “Lyra giovani” da lui diretta per Interlinea – questo mio primo vero libro, Pronomi personali (2017).
La poesia, insomma deve avere un suo centro: un nucleo dal quale si irradiano le molteplici possibilità del senso. Un centro, quindi; un’immagine fissa. Spesso quando scrivo mi capita di partire da un’immagine e intorno a questa costruire piccoli corpi testuali orbitanti intorno al suo centro d’attrazione: scrittura come capacità magnetica del pensiero e delle immagini. In questo senso mi è molto caro ciò che ha detto una volta l’artista Tano Festa: «I ricordi hanno a volte molta importanza soprattutto per me che di fronte a una tela bianca subisco il fascino del “titolo”. Quindi forse più che di ricordi biografici in senso stretto operano nel mio immaginario le “ricordanze”, suggestioni di fatti epici, di miti mediterranei, di capolavori letterari, di esperimenti scientifici, ecc.». La vita e lo studio si traducono così in materia di poesia, cercando corrispondenze dentro e fuori dal mondo della nostra immaginazione. Ma sempre a stretto contatto con la realtà, partendo dall’elemento sensibile. Come appunto in Leopardi.

Figure – “Tertium non datur”, avrebbero detto i latini: e qui entriamo nel campo delle possibilità. Se ritmo e pensiero costituiscono gli assi cartesiani su cui si muove l’immaginazione, le immagini o figure obbediscono invece a un principio ondivago, soggetto a una fisiologica indeterminazione. È la sensibilità del soggetto a stabilire un rapporto tra le figure, immettendole in quel campo magnetico che tiene insieme suono e senso, con una carica affatto neutrale. Le figure o immagini sono il nostro modo di interpretare il mondo e di leggerlo alla luce del nostro pensiero. Per questo provo una irresistibile attrazione verso quelle immagini complesse, quelle vere e proprie installazioni che ogni tanto appaiono nei versi dei poeti di oggi. «Niente è più servile dell’amore», leggiamo in una poesia di Maria Grazia Calandrone. «Il cuore è una pozza / di varechina vergine con i piccoli impianti di irrigazione / in tubicini neri e legamenti di cardo mariano». Un’immagine superba, impareggiabile nella sua violenza. E per questo in grado di conservare intatto tutto il potenziale del “sentimento” che l’ha generata.
Direbbe l’artista e scrittore Henri Michaux: «Niente a che vedere con l’immaginazione volontaria dei professionisti. Né temi, né sviluppi, né costruzioni, né metodo, soltanto l’immaginazione dell’impotenza a adeguarsi, giorno per giorno, seguendo i miei bisogni, mai per costruire, semplicemente per preservare». Il poeta non riesce a adeguarsi nemmeno nella più placida delle descrizioni: «Con vasti occhi innocenti di pinguino, / tre merli poliglotti, grossi ma novellini, / stanno in fila / sotto il salice glauco». Gli “occhi di pinguino” e la definizione di “poliglotti” turbano chi si accosti a questi pochi versi di Marianne Moore, ad esempio. Accade proprio così, come nell’Amleto: «thus bad begins and worse remains behind». Ha inizio dalle figure il male della poesia, la sua profonda capacità di attrazione e di turbamento.

(www.iltempodelceppo.it)

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