Lidia Lombardi
A proposito di “Le cause innocenti”

L’ultima invettiva

Davvero un bell'esordio, quello di Matteo Cerami: il suo romanzo è un lucido, amaro apologo sulla frana occidentale. La lettera-confessione-denuncia di un giovane intellettuale romano privo di storia e certezze

È il contrario del libro confezionato per piacere, Le cause innocenti di Matteo Cerami (Garzanti, 126 pagine, 18 euro), esordio nella narrativa di un “figlio d’arte”, poiché il padre era Vincenzo Cerami (l’autore di Un borghese piccolo piccolo e lo sceneggiatore di La vita è bella) e la madre è Graziella Chiarcossi (filologa, cugina di Pierpaolo Pasolini e custode indefessa della sua opera). In primo luogo, l’aspetto singolare nello sfogliare le pagine: nessuna divisione in capitoli (ché se sono brevi è meglio, suggeriscono in genere gli editori, così il lettore ha la sensazione di poter leggere in fretta e scegliersi le parti che preferisce, come stesse a cibarsi una serie tv) e per di più scarsissimi a capo. Insomma, una sequela di righe per la bellezza di 126 pagine, una sorta di discorso continuo in forma di epistola, una confessione interminabile, un ripiegamento su se stesso, chissà, a guardarsi l’ombelico. Parla e straparla di sé, in prima persona, tal Antonio Capece. Un uomo giovane e ricco, non per essersi fatto da solo una fortuna, ma per averla avuta bella confezionata dalla propria agiata famiglia. Sicché a lui non resta che affidare il patrimonio a un consulente finanziario, il dottor Vivaldi, il destinatario della lettera, dunque l’unica altra presenza più concreta, quanto meno nella veste di ideale interlocutore, pur muto (già, non c’è un dialogo che sia uno nel volume, anche qui contraddicendo le “regole” per accalappiare i lettori).

Eppure li accalappia, eccome, i fruitori, Antonio Capece. Perché svela attraverso il suo fancazzismo da intellettuale eternamente chiuso nello studio, facendo credere alla moglie di essere impegnato nella scrittura del romanzo che lo renderà famoso, l’appiattimento di una generazione di coccolati di buona e acculturata famiglia, di ragazzi cresciuti secondo valori civilissimi e progressisti, eppure finiti a pescare nel niente, a «fare cose e vedere gente», morettianamente, tanto il vestito di stoffa buona, la vacanza nella casa al mare, il cibo prelibato, l’abitazione nel quartiere bene di Roma sono assicurati. Un milieu che affonda nella solitudine e alimenta in Capece un inossidabile senso di colpa. Non si è meritato il benessere in cui si crogiola eppure ogni giorno ne sente il peso. E, infatti, tenta di farla finita: vuole suicidarsi? No, abituato com’è a galleggiare, è improbabile che lo faccia. Piuttosto vuole sparire, e affida alla lunghissima missiva (una sorta di cinematografico piano-sequenza, ché tra l’altro Matteo Cerami è anche regista) le disposizioni risolutive: disfarsi di tutti i suoi beni, conti in banca, buoni del Tesoro, azioni, immobili.

E vuol pagare anche il conto con la scrittura, l’Antonio Capece abile a compilare lettere piuttosto che a completare romanzi e quando ne prepara uno cade nel «tranello della brutta letteratura di chi crede a quel che dice». Perché è consapevole di fare parte di un grande inganno, al centro di una civiltà, quella occidentale, che si sta dissolvendo, che vive solo nel presente, che è priva di vettore. Basta affacciarsi alla finestra per capirlo e così lo spiega al fantomatico Vivaldi: «Siamo nella città più bella del mondo: Roma. Se scosta un po’ la tenda e guarda meglio, vedrà anche lei: la città eterna. È tale e quale ce l’hanno lasciata duemila anni fa. Solo che gli abitanti di allora sono tutti morti. Sono morti anche gli dei che li hanno creati. Guerre, saccheggi, carestie, bombe, incendi. Geometri e faccendieri, ‘ndrine e Opus Dei. Non ultimo: un piccolo esercito di consulenti finanziari come lei. E cosa ci è rimasto? Un cumulo di rovine a cielo aperto. Una città di spettri, nata secoli prima di te, che sparirà secoli dopo che sarai morto».

Così, al “giovane europeo” non più di belle speranze, non resta che respirare «quest’aria pregna da fine del mondo». È ora dunque che getti la maschera. Lo fa fino in fondo, egli che si è infilato, nascendo, al posto di un altro. Macché Antonio Capece, quello è un fantoccio, «mi chiamo Matteo Cerami», assicura al dottor Vivaldi. Lui e l’alter ego, imbucata la lettera dell’ammissione di colpa e del goffo tentativo di risarcimento verso il mondo, qualcosa di bello da fare lo troveranno. «Andare a cercare un po’ d’orizzonte. Non un mare qualsiasi: un mare di maggio, senza ombre». Certo, l’aspro Matteo Cerami che non si fa sconti mai si piegherebbe alla melassa delle citazioni. Ma a noi torna davanti agli occhi un filmato del 1974: Pier Paolo Pasolini, col cappotto e il maglione a quadri, tra le dune di Sabaudia. Denunciava l’omologazione imperante nell’era del benessere, complice la tv.

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Accanto al titolo: “Piazza del Popolo” di Tano Festa, 1985

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