Sergio Buttiglieri
Al Teatro alla Scala di Milano

Musorgskij o Cechov?

Mario Martone ha messo in scena, attualizzandolo fino all'estremo, “Chovanščina” di Modest Musorgskij: amori, passioni e tradimenti, da Blade Runner agli orrori dell'Isis

La Chovanščina di Modest Musorgskij, fra le più grandi opere liriche di tutta la Russia,  racconta la specifica tormentata e violenta storia di questo popolo del  XVII secolo, con protagonisti i principi Ivan e il figlio Andrej Chovanskij, che si spacciano come difensori degli zar adolescenti, Ivan e Pietro (che diventerà il celeberrimo Pietro il Grande), mentre altri, come il bojaro Šaclovityi, li accusano di sobillare il popolo con l’appoggio dei raskol’niki, ovvero dei vecchi credenti, ostili alla recente  riforma religiosa che aveva creato lo scisma della chiesa ortodossa; ma aldilà di questa intricata trama, in cui noi tutti ci perdiamo ogni volta, l’opera, alla fine, racconta comunque, sempre e soltanto, come da tradizione lirica nostrana, di tradimenti, di sofferenze, di dolori, e di triangoli amorosi.

L’edizione che ne viene data alla Scala di Milano – con la splendida direzione musicale di Valery Gergiev assieme al cast di grande caratura, fra cui spiccavano Ekaterina Semenchuk nel ruolo di Marfa, e Stanislav Trofimov nel ruolo di Dosifey, accompagnati da un possente armonico coro del Teatro alla Scala diretto da Bruno Casoni – ha contribuito a far innamorare l’attento pubblico internazionale del nostro tempio milanese della Lirica, a questa complessa produzione che, quando debuttò nel 1886 a San Pietroburgo, ci rivelò, come giustamente ci ricordava Renato Barilli, le profondità animate, intatte, delicate e brutali dell’anima musicale slava. La verginità monumentale di questa musica piena di emozione primitiva, il leggero delirio delle melodie, e i ritmi festosi seppero raccontarci, con un risuonare violento e disperso, l’avvento della Russia nevosa e leggendaria.

Le magnifiche scene di Margherita Palli, che non tutti i melomani avranno gradito per la loro distopica visione non canonica del mondo narrato dal giovane Modest Petrovič Musorgskij – che non riuscirà a terminare la composizione per la sua prematura morte – immergono con grande fascino, fin dal primo atto, in quel paziente e solenne dolore, che lei ci visualizza inaspettatamente in un’atmosfera da periferie industriali decadenti e tenebrose, calzante metafora di questa società in eterno arrovellato conflitto dinastico. Quello che ci appare è una sorta di Marghera in dismissione, con ponti semi diroccati (alla Morandi) e flussi di strel’cy, (nome con cui i russi identificavano le loro armate) devastatori e disorientati come in tutte le guerre della nostra storia dell’uomo, che il libretto, ripreso da Dmitrij Šostakovič, puntualmente ci racconta.

Nella storia del teatro musicale, Musorgskij scoppia come un uragano, con il suo terribile accento, con la sua implacabile solennità. Il suo è un mondo immerso in un sublime sgomento; nelle sue opere travolge senza tregua i destini del suo popolo. Musorgskij è tutto istinto: non scrisse mai una fuga. La sua idea era la Russia e per lei scrisse le sue opere come il grandioso Boris Godunov e questa Chovanščina che abbiamo avuto la fortuna di vedere alla Scala.

Il secondo atto di quest’ultima notevole produzione scaligera ci mostra uno stralcio di padiglione estivo di sapore cechoviano, con i vetri appannati, che si affaccia su un giardino innevato e con gli alberi spogli sotto la cappa di un cielo grigio, metafora perfetta delle menti poco lucide dei protagonisti. Mario Martone, ora giunto alla sua sesta produzione lirica,  naturalmente immette giustamente momenti di contemporaneità come il principe inquieto che fa scorrere i messaggi sul telefonino mentre l’altro gli parla. «Non distruggete le antiche tradizioni», a un certo punto urla Ivan Chovanskij a Dosifej, mentre adirato denuncia l’abolizione dei privilegi dei boiari, ovvero degli antichi nobili russi. Per poi far apparire il corteo nerovestito (i costumi sono di Ursula Patzar) che sembra quello dei gilet gialli parigini dei nostri giorni. «In noi e nelle antiche tradizioni sta la salvezza della Russia», e guarda caso sembra in qualche modo il coro dei nostri parlamentari che non vogliono l’abolizione del vitalizio. A questo punto la casa cechoviana si alza e prende meravigliosamente fuoco.

Altra immagine potente, una sorta di cupola semisferica crollata a terra con il relitto di un auto abbandonata, una donna, l’indovina Marfa, iniziale amante del principe, ora rinchiusa dentro una gabbia da circo, canta in maniera struggente le sue predizioni dialogando con Emma (la calzante Eugenia Muraveva), l’altra fanciulla assediata da Andrej Chovanskij (il notevole Sergey Skorokhodov) che la desidera visceralmente, pur  avendole appena distrutto l’intera famiglia.

Martone non si lascia sfuggire l’occasione di riportarci alle nostre recenti tragicomiche vicende tra politica e gossip, quando ci fa apparire, dopo i romantici spari sul tetto agli stormi di passaggio sullo sfondo, la scena delle olgettine, al posto delle originarie schiave turche del libretto, che qui circondano Ivan Chovanskij (reso magistralmente da Mikhail Petrenko) e che, dopo averlo repentinamente freddato, gli fanno pure le foto col cellulare da mettere, immagino, su Instagram.

Nella successiva scena di sapore sempre post atomico, alla Blade Runner, ritroviamo Marfa sorpresa dallo scocciato Chovanskij in cerca della sua agognata Emma. Mentre arrivano le truppe vestite da SS che frenano il popolo che vuole fare giustizia. E qui ci ritroviamo altre immagini del nostro tempo: una troupe televisiva che riprende la folla, poco prima che arrivi la grazia del zar e della sua regina. Folla che stava iniziando a tagliare la gola agli strel’cy condannati, esattamente come nei video diffusi dai terroristi islamici, a cui ormai purtroppo siamo orrendamente abituati, e con sempre qualcuno pronto a postare e diffondere gli orrori perché fanno comunque audience e quindi producono maggiori inserzioni pubblicitarie.

Margherita Palli, per lasciarci letteralmente senza fiato, nell’ultima catartica scena si concentra su un grande plenilunio: mentre assistiamo allo struggente canto del pastore – con dietro le quinte il magnifico coro che ci ammalia con le sue melodie – la luna smette di essere il nostro satellite e diventa una inarrestabile  terrificante palla di fuoco che invade tutta la scena.

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