Giancarlo Pontiggia
Autoritratto in tre parole /1

Cosmo cose anime

I poeti finalisti del Premio Ceppo 2019 si raccontano attraverso la loro opera in concorso. Così Giancarlo Pontiggia spiega che ne “Il moto delle cose” la sua visione si è espansa e che la raccolta altro non è che una discesa nella materia scura dell’universo, che è quella di cui siamo fatti

A partire da oggi e con un appuntamento bisettimanale, i poeti finalisti del Premio Letterario Internazionale Ceppo Pistoia, Selezione Poesia 2019 (che verrà assegnato il prossimo 24 marzo) si raccontano attraverso la loro ultima opera, in una rubrica curata da Paolo Fabrizio Iacuzzi, presidente e direttore del Premio. Inaugura la serie Giancarlo Pontiggia in concorso con “Il moto delle cose” (Mondadori 2017).

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CosmoIl moto delle cose è un libro in cui la visione del cosmo, che era già sottesa alle mie due raccolte precedenti, va a occupare pressoché tutto il quadro, diviene il tema dominante. Ho sempre amato i libri architettonici, strutturati e ventosi, dove ogni parola si potenzi nelle altre, liberando la forza archetipica dei nostri sogni e dei nostri pensieri. E ho sempre immaginato ogni libro partendo da un’idea di spazio, o meglio – evocando la grande lezione di Gaston Bachelard – da una “poetica dello spazio”: forse perché ho sempre diffidato delle parole astratte, non nutrite di materia e di vita, di quella sovrana forza sensibile e naturale che viene dall’esperienza delle cose del mondo, e di cui sentiamo il peso nelle parole che usiamo. Con parole remote (1998), la mia raccolta d’esordio, era un libro-giardino in cui tentavo “nomi felici”, mi immergevo nella materia calda di un’estate remota, nei numeri lucenti dei suoi cieli. La raccolta successiva (Bosco del tempo, 2005) era un libro-bosco: misterioso, labirintico garbuglio di illuminazioni private e pubbliche, di smarrimenti, di felicità, di luoghi mitici e assolati (le Cicladi greche) che si alternano a paurose lande ghiacciate di infernale memoria. Con Il moto delle cose la visione si è espansa, e tutto il libro non è altro in fondo che una lunga catabasi nella materia scura dell’universo, che è anche la materia di cui siamo fatti noi che guardiamo, illudendoci magari di poterci astrarre dal peso di questo continuo sprofondare. Il libro si dovrebbe dunque leggere come un’immersione, uno sprofondamento, anzi, in quel gorgo brulicante e metamorfico di vita in atto in cui l’io lirico – l’antico, in fondo così confortevole io lirico – urta nella «armata // neutra delle cose» di cui si parla nella sezione Dal prima delle cose.

Cose – Non so quante volte la parola cose si ripeta nel libro, fin dal titolo stesso: immagino parecchie, e non senza motivo, perché “cose” (un corrispettivo, anche concettuale, delle res lucreziane) era l’unica parola, nella sua vaghezza, nella sua paradossale densità, che mi consentisse di rappresentare il vortice cosmico nel suo sviluppo di nascita e di morte, nel suo “moto” incessante di rigenerazione e di distruzione. Il cuore di questo discorso è proprio nella sezione più lucreziana del libro, Le muraglie del mondo, in cui le cose «vibrano // s’impollinano, tumultuano / all’appello // di un ordine incessante». Un ordine al quale nessuno può sottrarsi, e che si incarna – in tutti i versi della sezione – in forme necessariamente immaginose: «Stridono, le cose, / nella botola – scura – della materia, / oscillano // a un fiato di mondo»; e ancora: «E affondi / sulla stadera del mondo / al flettersi di un ferro austero, / costante»; e infine: «Necessità / li uncina, dal suo trono di nubi / perenni»; «Natura, / salamandra possente, torce / la sua coda di tempo // fervido, / che ribolle». Quel che mi premeva era restituire, nel vigore fantastico delle immagini e delle espressioni, la drammatica vitalità dei moti cosmici, coniugare pensiero e ardore, suscitare uno slancio di ordine insieme emotivo e intellettuale, parlare del nostro essere nel mondo, ma qui, oggi, nella temperie storica che viviamo, nel cuore del nostro immaginario, che è il frutto – grandioso e insieme prostrante – della moderna rivoluzione scientifica, degli studi astrofisici dell’ultimo secolo di cui tanto ci siamo nutriti. (Nella foto Giancarlo Pontiggia, ndr).

Anime – Se penso a questo mio terzo libro, penso in fondo a un uomo che alza gli occhi, guarda il cielo, sente la terra che gira gira, e lui sta su questa navicella: se fosse vissuto al tempo degli antichi, se ne sarebbe inorgoglito; e invece, ormai, sa benissimo che i mondi sono davvero infiniti (lo diceva già Lucrezio, ma pochi gli credevano), che la Via Lattea – che nel Somnium Scipionis appare a Cicerone come una patria celeste, un luogo salvifico – è in realtà un sito decentrato e minuscolo dell’immenso cosmo che si espande, non si sa bene dove, e come. Allora anche quel che chiama coscienza, la dimensione dell’interiorità – l’interiorità dei grandi stoici, di Seneca e di Marco Aurelio, che sono molto presenti in questo libro – comincia a barcollare, a sfarsi: «Si liquefà, il pensiero / nel suo covo – altero, irreprensibile – // di bronzo lucente». Non poter più credere nell’uomo, l’uomo nel senso più nobile del termine, quello forgiato nelle grandi stagioni dell’Umanesimo, sentire nella concretezza del farsi e disfarsi delle cose la potenza del “niente”: ecco ciò che lima in profondità ogni parola del libro, ma in fondo di tutta la nostra cultura, mettendola a nudo, gettandola in una condizione disperante e disarmata. E intanto, tra una sezione e l’altra, si affollano le anime dei trapassati: persone amate, oppure avi, uomini senza più nome ormai, che si aggrappano alla catena elementare della vita, e pretendono di essere ascoltati: indifesi anch’essi, prostrati da secoli di disfacimento, eppure ancora proiettati, follemente, verso la vita.
Queste anime chiedono una briciola di esistenza postuma, anche tragica, anche meschina, come Achille nell’undicesimo libro dell’Odissea, che baratterebbe il proprio passato eroico con la condizione più servile, pur di continuare a percepire un barbaglio della luce del mondo (E temi, e nel timore ti separi da ogni cosa). Oppure chiedono, come l’ombra della poesia iniziale (Un’apparizione), di conoscere – loro che stanno di là, ignari di tutto – «qualcosa / che valga la pena». E intanto la materia continua a metamorfosarsi, i corpi si trasformano in altri corpi, il cielo che pareva – e a volte continua a parere, come nella poesia su Citera, vera isola felice del libro, un ricordo delle Cicladi di Bosco del tempo – così abbagliante, assoluto, si fa ora buio, fermentante, inquieto, come quello di E lo vedemmo, infine, penultima poesia del libro. L’ambizione del grande poema didascalico-scientifico, empedocleo e lucreziano, che è all’origine del libro, si è inabissata nelle tavole più umane e più accessibili della lirica, e il “moto delle cose” è diventato, senza che io neanche me ne accorgessi, a poco a poco, come un quaderno del nostro giornaliero sprofondare in Ade.

(www.iltempodelceppo.it)

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